modo, il linguaggio populista che quella strategia adotta: ma ritengo quel linguaggio la forma politica obbligata della mobilitazione collettiva a Palermo. Una forma politica fragile a tal punto da far dubitare della sua utilità. E, tuttavia, obbligata perché le altre vie risultano sbarrate: e perché è la sola capace di produrre un qualche esito sul piano della soggettività sociale. In sostanza, quella mobilitazione permette a migliaia di giovani (ma anche di non giovani) di mobilitarsi: in una situazione dove la possibilità di mobilitazione collettiva non è un presupposto e un diritto ascritto. Dunque, a Palermo, la mobilitazione costituisce un valore in sé, che modifica la mentalità di segmenti di popolazione e produce- particolarmente in alcuni strati giovanili-maggiore consapevolezza, maggiore autonomia, maggiore senso di responsabilità. E l'idea che sia possibile-virtualmente, se non altro - una politica diversa dal modello affaristico-malavitoso oggi dominante. Dunque, quella mobilitazione allarga lo spazio democratico e amplia i diritti di cittadinanza nel "regno dei Madonia". È poco? È molto? Certo, non è sufficiente a segnalare percorsi stabili di organizzazione e di azione; e, tanto meno, è sufficiente a indicare efficaci forme di intervento sul piano politico-istituzionale. E, allora, dico che davvero non ho la minima idea di cosa si possa fare a Palermo per Palermo, e che consegno queste pagine solo perché Nino Fasullo ha ritenuto in qualche modo utile che mettessi per iscritto ciò che, periodicamente, mi capita di dirgli. Sapendo quanto ciò possa apparire un tradimento a chi, a Palermo, ancora si batte con disperata speranza, sono indotto a condividere ciò che ha scritto Marino Sinibaldi su "Linea d'ombra" n. 74 (settembre '92). Ovvero che - se c'è, in questa città, una possibilità di impegno non solo individuale - sta in qualcosa di lontano e diverso dalla politica, dalle sue attuali forme e dal suo attuale sistema di valori. Qualcosa che, cinquant'anni fa, Nicola Chiaromonte (richiamato da Sinibaldi nel succitato articolo) così definiva: "In questo stato di cose, per coloro che decidevano di non arrendersi, l'affili azione politica aveva poca importanza, mentre ciò che realmente contava era la presa di posizione morale, e la ricerca di rigore intellettuale assunse la stessa urgenza di quella del pane quotidiano" (N. Chiaramente, Il tarlo della coscienza, Il Mulino 1992, L. 34.000). Il riferimento di Chiaromonte è al regime fascista e, dunque, nessuna facile trasposizione è consentita: ma, nel sistema democratico italiano, il "regno dei Madonia" può acquisire una capacità di controllo sul territorio-e sulle menti e sugli atti degli individuiche è propria dei sistemi totalitari. In una tale situazione, per Chiaromonte, la "questione morale" consisteva nello "scegliere ciò che ciascuno sarebbe dovuto essere, indipendentemente dalla possibilità di successo che aveva". Credo che oggi, a Palermo, anche la questione politica, oltre che la questione morale, consista esattamente in ciò. A confermarlo ci sono i tratti biografici di due che hanno deciso di "non arrendersi"; e che hanno investito, in primo luogo, sulla propria responsabilità individuale e professionale. Penso a Paolo Borsellino e a Rosario Livatino. Le loro biografie, le loro culture, i loro stili di vita e di azione risultano così incomparabi I mente di versi da quelli ILCONTESTO che siamo abituati a riconoscere nei nostri interlocutori e nei nostri alleati, da apparirci assai singolari. Singolare la militanza nel Msi (o nel Fuan) di Borsellino; singolare il fatto che Livatino, dopo aver depositato l'ordinanza di rinvio a giudizio dei mafiosi di Agrigento, scriva nel suo diario: "Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori...". Per certi versi, è proprio l'anomalia di queste figure a costituire una delle poche novità siciliane. Saldare, o anche solo collegare, quei singolari percorsi biografici e professionali ai sistemi di azione pubblica e di mobilitazione collettiva, mi sembra davvero impresa ardua: e forse anche scorretta, se non pericolosa. E, tuttavia, è impresa che va tentata, con grande intelligenza e sensibilità: "astuti come serpenti", ma "candidi come colombe". E consapevoli che si tratta di una terribile fatica, dall'esito assai incerto. Intanto, già ora, è importante cominciare a conoscere, rispettare e valorizzare quei percorsi biografici e professionali anomali: prima che si riducano ad altrettanti necrologi. Tempi difficili Marino Sinibaldi Cosa sappiamo in fondo delle Crisi, delle grandi cns1 economiche? Che qui, nel PrimoMondo, periodicamente arri vano, riducono più o meno sensibilmente consumi e standard di vita, rimescolano almeno marginalmente fortune e gerarchie sociali. E dunque, in modo sempre imprevedibile, cambiano le cose: la politica, la cultura, la vita pubblica delle nazioni. Ma di questa crisi, della crisi che in questo autunno italiano ha davvero chiuso i lunghi anni Ottanta e annunciato la nostra fine secolo, sappiamo ancora meno. Non solo perché è difficile capire davvero cosa comporterà, dato che nel capitalismo ipermaturo anche un fatto così fisiologicamente materiale sembra invece appartenere a una realtà virtuale di grandi speculazioni, movimenti finanziari, enigmi monetari. (E dunque non siamo ancora in grado di sapere se gli italiani dovranno fare a meno dei telefonini e magari di consumi più nobili e però egualmente superflui, o se invece gli effetti saranno più aspri e profondi). Ma perché in Italia questa crisi colpisce una società profondamente mutata, notevolmente arricchita, completamente ridisegnata dalla lunga bonaccia degli ultimi dieci, quindici anni. E soprattutto si intreccia con una crisi di altro genere, con la destrutturazione e la delegittimazione dell'intero sistema politico e delle sue istituzioni, con la degenerazione morale dell~ nostra cosiddetta società civile. Lacombinazione tra la recessione economica e una crisi morale è storicamente l'evento più minaccioso che possa colpire un paese. Ciononostante non sembra che la coscienza intellettuale italiana sia allarmata. Certo, mancano gli strumenti per capire e per agire: la faticosa liberazione dagli schemi che avevano oscurato la nostra comprensione della realtà è ancora in corso, ancora insufficiente. E ora invece tutto, la politica, l'economia, lo scontro sociale sembra regredire alla logica delle fazioni, delle corporazioni e dei bulloni. Può essere, come qualcuno crede o fa finta di credere, che questa sia in fondo la logica della storia. Che non solo le classi esistono davvero e nonostante tutto, ma che è unicamente la loro continua contrapposizione a decidere il futuro. E, per essere chiari, le classi, i partiti e le persone chiamate a governare questa crisi, sembrano praticare a oltranza questa concezione della storia: le misure finora annunciate e previste sono in questo senso tipiche non solo per la loro iniquità, ma perché non mostrano nessuna capacità di colpire la ricchezza che in questo paese si è prodotta. E che si è diffusa - questo è il dato in realtà sufficiente a smentire tutte quelle concezioni e quelle posizioni - in zone amplissime della società, ben al di là delle sue tradizionali divisioni e stratificazioni. Questo aspetto è talmente chiaro che a detenninare le posizioni, le rivendicazioni 5
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