ROGHI AL CENTRO DEL MONDO Erik Stinus traduzione di Ludovica Koch Che titoli eloquenti, e che titoli singolari - aperti fino alla vertigine, elementari fino alla temerità- ha l'abitudine di dare ai suoi libri Erik Stinus. Le copertine delle raccolte, ormai molto numerose, delle poesie e delle prose pubblicate in oltre trent'anni parlano già da sole di una percezione dilatata e intensificata all'estremo delle cose del mondo. E, allo stesso tempo, di un lavoro sull'esperienza teso a una radicale semplificazione, a una vera e propria scarnificazione dei dati: che avvii una drammatica ricerca del collettivo nell'individuale, dell'universale nel contingente. Dal libro di versi con cui Stinus debutta a ventiquattro anni, infatti, Terra di confine (1958), Cabo Tormentoso ( 1960), Parole del polo e del deserto (1963), Paesaggio e atlante (1965), Terraferma (1967), La sonnambula Terra ( 1976), La terra sotto il cielo (1979), L'albero, l'uccello e i buoi (1980), fino ai più recenti Il cuore assediato ( 1987) e 700 ponti ( 1989), sono subito evidenti nei titoli tanto il taglio etico ed essenziale (accompagnato, come si vede poi leggendo, dal rifiuto di ogni intimismo, narcisistico o dolente che sia) quanto l'ampiezza straordinaria della prospettiva, che abbraccia in un solo colpo d'occhio le terre (ultime) e la Terra (unica). I libri di racconti, dal canto loro, nominano già nel titolo come loro temi i sassi e l'erba, il tempo e i passaggi della luna. Sono le condizioni elementari e comuni dell' esistenza; il teatro rudimentale e silenzioso della mutevole, minuta e dolorosa storia umana che dei racconti è oggetto diretto. "La letteratura è un viaggio di scoperta", seri veva anni fa Erik Stinus a proposito della scrittrice svedese Sara Lidman. La poesia, dice altrove un suo sottotitolo, lavora metaforicamente e letteralmente per "spedizioni", nel tempo come nello spazio. Come gran viaggiatore della scrittura Stinus è appunto noto in Scandinavia e in Italia (a partire dall'antologia di Einaudi Giovani poeti danesi, curata nel 1979 da Maria Giacobbe). Imbarcatosi a diciannove anni come mozzo su navi mercantili dirette ad Aden, nel Pakistan, in India, Birmania e Sri Lanka, il futuro scrittore conosce e guarda direttamente (negli anni della guerra di Corea e della rivolta dei Mau-Mau) molti paesi del cosiddetto Terzo Mondo, e dal loro punto di vista comincia a parlare in versi al suo ritorno, su riviste e nei primi libri. Dal 1965 al 1968, poi, si trasferisce volontario, all'interno di un piano di collaborazione internazionale, a insegnare nelle scuole serali, in Tanzania. Soggiorna in seguito a lungo in India e in America Latina; stringe e mantiene i contatti con i diversi movimenti di liberazione, e anche tornato in Danimarca li sostiene politicamente e culturalmente. E soprattutto ne scrive. Ma com'è diverso il viaggio poetico da quello aggressivo, teso alla violazione e alla conquista, degli esploratori e degli avventurieri con cui comincia, per convenzione, l'età moderna. TIrapace· sguardo dall'esterno e dall'alto di Colombo, Vasco de Gama, Livingstone è confrontato espressamente, nell'opera di Stinus, con uno sguardo doloroso che sale dall'interno e dal basso. È dunque inutile cercare in questi libri, nonostante la vivezza concreta delle impressioni, il cosiddetto colore locale, un chiassoso o suggestivo esotismo. "Quello che accade in qualche parte del globo accade nello stesso tempo in noi e per noi. La nostra responsabilità si estende all'indietro nel tempo e in avanti, fuori di noi, fino a raggiungere ogni angolo del mondo." La profonda solidarietà alla "nazione umana" si manifesta soprattutto in una serie di introverse, schive identificazioni: con il minatore rhodesiano d'amianto, con il coltivatore di riso vietnamita o, sempre in Vietnam, con i costruttori dei settecento ponti distrutti dalla guerra; e poi con il traghettatore cinese, il tessitore e il facchino indiano o i pescatori dei laghi africani. Nel libro di viaggi La soglia dei potenti (1969), Stinus dichiara il suo progetto una volta per tutte: scrivere "dei senza potere, dei sostegni volontari e involontari del potere, dei condannati e dei ribelli". Soprattutto, come dirà altrove in versi, per mantenere vivi l'attenzione e il dolore: "dove il dolore è spento/ parlano gli interessi/ comincia un'altra morte". Sfogliando le sue raccolte, ci si imbatte continuamente in dediche ali' Africa e al Vietnam, al Nicaragua e ali' India, che chiariscono come le terre "ultime" non siano tanto le più lontane, quanto le più umiliate e violate; e come umiliata e violata in loro sia la vita - la Terra - di tutti. Con la stessa instancabile attenzione, con la stessa dolorosa tensione morale, Erik Stinus segnala infatti nelle culture occidentali, sotto la parvenza bugiarda della normalità, il predominio della violenza, la tirannia, il fanatismo, la tentazione del nichilismo e dello scetticismo. Altri titoli parlano del prezzo del petrolio e dell'industria bellica, della "identità americano-europea" e dei lavoratori immigrati, dei "supermercati supertecnologici" e della socioinformatica_ I giudizi politici sono diretti e duri ma sempre senza enfasi: appassionati e trattenuti insieme, com'è nello stile di questo schivo scrittore. Soprattutto alla forma e alla tecnica è infatti affidato il progetto di questa poesia, il "ponte gettato dallo sguardo" sulla disperazione e la speranza delle collettività umane. Dai concentrati effetti di chiaroscuro delle brevi e semplici strofe haiku, che instaurano una fortissima tensione fra il contingente e l'eterno, come dai lunghi poemetti epici lavorati musicalmente per accumulazioni, cataloghi, fughe e riprese, dall'associazione di sensi affilati "come sull'orlo della morte" con un pensiero acceso e vibrante nasce u~a visione dilatata che ordina, raccoglie, unifica il frammentario, scopre e rinnova il generico quotidiano e l'opaco. I versi, comè le storie in prosa - più spesso parabole ché resoconti realistici - devono la loro efficacia a una fortissima tensione dell' immaginazione e del pensiero: al continuo spostamento di una larga ottica e di una lunga memoria: alle sovraesposizioni di vicino e lontano. Sul piano dei fenomeni minuti e concreti si proietta quello delle cose assolute, le impressioni tragicamente fisiche si dilatano in archetipi. Il tono di voce svaria fra malinconia e dubbio, ironia e passione; e un'introversa e dolente reticenza preferisce lasciare nel silenzio l'interpretazione delle cose narrate e affidare, appunto, alla tensione fra i due piani della rappresentazione il giudizio, il commento, la proposta soggettiva per il futuro di tutti. (L. K.) E così, basta, finito tutto. A chiedersi dove porti il suo viaggio, tutto quello che sa rispondersi è: lontano. La cosa più pesante era stata non potersi difendere: né fisicamente, né con i testimoni giusti. Bisognava dimenticare. Ma gli altri, dimenticavano? Qualcuno del paese gli aveva domandato: "Ma non ti vedevamo viaggiare con più lusso, una volta?" A tirare il carro era un bue, e non serviva a granché che il conducente alzasse la voce o usasse il bastone. Bisognava rassegnarsi a una velocità adatta a quel trabiccolo. Tutta la strada che collegava i villaggi della zona consisteva nei due solchi di ruote che attraversavano i grigi campi arati, in attesa della pioggia. I semi e l'aratro dovevano vedersela con zolle e zolle di cardi, di caprispino, di erbadura: ma non andava male, la piana, per l'agricoltura, se non veniva a mancare la pioggia; o se non diluviava troppo, trascinando così terra e messi nel fiume. Come crollano in fretta, le case, appena si apre una crepa. Un istante, e va in fumo il frutto delle fatiche di molti mesi. Non l'aveva detto forse, il Maestro: La terra produce solo per trent' anni, e le disgrazie non hanno stagione? Ma era una dottrina bugiarda, e il Maestro era un farabutto, meglio non parlarne. C'era chi diceva che fosse morto, che si fosse ucciso, e chi diceva che l'avessero messo in catene, o sul banco di tortura: e che altro si meritava? Altri ancora sostenevano che non torturassero più 67
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