Linea d'ombra - anno X - n. 76 - novembre 1992

CONFRONTI Passiamo infine alla Laterna magika, dove in questi giorni, con la regia di Evald Schorm e J aroslav Kucera, la scenografia del grande Josef Svodoba e la drammaturgia di Milena Honzfkova, abbiamo visto l'Ulisse che, in forza del linguaggio internazionale è estremamente popolare fra i turisti, ma, purtroppo, inaccessibilmente costoso per il pubblico ceco. Sintesi e fusione di teatro e cinema, per cui gli stessi attori appaiono contemporaneamente in scena e sullo schermo, l'Ulisse, come già altri spettacoli del Lanterna magika, riproduce la molteplicità e contraddittorietà dei nostri tempi. La compagnia, che sta provando il Flauto magico, destinato al pubblico italiano, si trasferirà presto al Nuova Scena, l'orribile palazzo di vetro accanto al Narodnf divadlo. La Honzfkova commenta a proposito: "il governo ci ha permesso di utilizzare questo edificio senza dover pagare l'affitto per dieci anni. Questo è tutto. Non ci danno altre sovvenzioni perché sostengono che possiamo cavarcela da soli. Il problema è che abbiamo bisogno di molti soldi in fase di allestimento, sia perché i nostri spettacoli sono molto cari, sia perché la preparazione dura uno, anche due anni. Infatti i nostri testi sono come delle partiture, dato che tutte le componenti dello spettacolo - i movimenti dei tre proiettori, la musica, la trama, la coreografia - debbono essere trascritti prima dell'inizio delle prove. Comunque i biglietti sono sempre tutti esauriti, soprattutto nella stagione turistica e per il pubblico ceco abbiamo fatto tre spettacoli fra cui Prova di notte (Nocni zkouska, 1981), dove abbiamo usato una grande televisione che proiettava quelle parti dei corpi degli attori che il pubblico non poteva vedere. Dato che non usiamo la parola abbiamo un pubblico internazionale e questo fa sì che riceviamo numerosi inviti all'estero". Abbiamo quindi chiesto a Svodoba quale possa essere il ruolo del silenzio, o della pausa, nel teatro e, più specificamente nell'arte della scenografia. Svodoba sottolinea così "l' importanza della cinetica, ovvero della scenografia in movimento che sa trasformarsi e sa scomparire e che può essere cambiata nel corso della vita drammatica del testo direttamente davanti agli occhi del pubblico e sotto i piedi degli attori. Poiché ogni messa in scena è diversa dalle altre, gli edifici utilizzati per l'arte, così come i teatri e le sale per concerto hanno bisogno della cinetica per poter essere diversi, ad esempio, al lunedì, rispetto al giovedì. Io mi sono spinto così lontano che l'edificio teatrale che utilizzavo cambiava di giorno in giorno perché il materiale adottato si raggruppava, o disgregava, a seconda della sua funzione. Sono così riuscito a creare uno spazio psicoplastico che potesse non solamente interpretare la pausa, ma la stessa psicologia della messa in scena. Mi sono reso conto del valore del silenzio mentre collaboravo con Krejca alla messa in scena dei testi di Cechov, dove le pause drammatiche giocano un ruolo fondan1entale. Così, ad esempio, nell'Amleto (rappresentato a Bruxelles nel 1965, n.d.c.) ho deciso che a un certo punto la scenografia avrebbe interpretato una situazione neutrale e il pubblico non l'avrebbe vista, ovvero lo spazio sarebbe rimasto vuoto: la scena era orizzontale, in movimento, e volevo creare diversi spazi drammatici a seconda delle diverse situazioni nel testo. Non volevo che questi cambiamenti fossero visibili e, al contempo, volevo farli vedere con molta intensità perché rappresentavano la crescita del cancro nel testo. Così ho fatto i movimenti della scenografia in modo che il pubblico li vedesse indirettamente, riflessi verticalmente in un enorme specchio. Tutto questo è cominciato pensando proprio alla questione del silenzio, della pausa della scenografia. Le pause possono inoltre avere ritmi molto diversi. A seconda della drammaturgia possono durare un secondo, oppure un'eternità. Per esempio in alcuni momenti la scenografia può parlare e gli attori tacere, o viceversa. Fare una pausa visuale è però molto più 36 difficile che fare una pausa sonora perché gli occhi vedono sempre e non si può semplicemente spegnere la luce. È stato molto faticoso capire cosa l'occhio umano possa vedere e cosa non possa vedere. Di questo, infatti, fanno la loro professione tutti i maghi". Abbiamo citato ripetutamente Otomar Krejca. Ricorderemo così qui brevemente i momenti della sua carriera. Nato a Skysov nel 1921, Krejca lavorò per un certo periodo in un teatro di provincia e quindi, dopo il 1945, al Divadlo E. F. Buriana; la cui prima regia, Lafalsa moneta di Gorkij, è del 1949. Sono memorabili le sue messe in scena di Frantisek Hrubin, Joseph Topoi, Milan Kundera e Vaclav Havel, fra i classici, dei quali mirò principalmente a sottolineare l'attualità nel contesto moderno, i suoi Cechov, come Il gabbiano (1969 e 1972), Le tre sorelle (1966), Il giardino dei ciliegi (1977). Nel 1965 fondò il Divadlo za branou (Teatro fuori porta), dove lavorò con attori come Marie Tomasova, Jan Trfska e Radovan Lukavsky. Nonostante il fatto che il suo teatro non fosse espressamente politico, le sue regie mettevano infatti in luce i problemi psicologici, sentimentali e morali dell'individuo più che le trasformazioni politiche ed economiche che ne condizionano la vita, dopo il 1968 venne ripetutamente attaccato dalla polizia e nel 1971, nel periodo della cosiddetta "normalizzazione", fu costretto a chiudere il teatro. "Il Divadlo za branou II", racconta Krejca, "è un teatro molto particolare perché le persone che lo fondarono, fra cui il drammaturgo Karel Kraus e JosefTopol, che è il migliore autore del teatro ceco, erano già tutte estremamente famose. Non ne potevamo più di essere continuamente sul mercato e volevamo semplicemente poter mettere in scena testi che ci piacevano. Poi sono venuti i russi che ci hanno detto che dovevamo adattarci alle loro esigenze. Ci volevano spezzare. Abbiamo detto di no e ci hanno spezzato. Alcuni attori sono stati inseriti in altre compagnie, ma quelli che mi erano più vicini non hanno potuto recitare per venti anni. Io sono stato salvato dalla solidarietà internazionale, dal1' aiuto di persone come Max Ernst, Pablo Neruda, Ingmar Bergman e tanti altri. Così, nel 1975, il governo fu costretto a darmi il permesso di lavorare in Germania. Non volevo emigrare e quindi mi venne dato un permesso speciale tramite il quale potevo lavorare all'estero e vivere qui a Praga. Quando in seguito alla rivoluzione di velluto il governo mi disse che mi avrebbe riabilitato risposi che potevo benissimo riabilitarmi da solo, ma che se voleva fare qualcosa per me poteva darmi un teatro. Ora riceviamo i fondi direttamente dal Ministero della Cultura e siamo quindi relativamente tranquilli dal punto di vista economico. In cartellone abbiamo Beckett, Cechov, Nestroy, Broch, Marivaux e, spero, in futuro Topol, cioè proprio gli autori che volevo rappresentare. È terribile in Occidente questo bisogno di mettere in scena il successo. Io voglio fare Cechov o Beckett e degli altri non me ne importa nulla. Una volta Roger Blin mi disse che vedevo troppe cose in Aspettando Godot e che non si trattava di una pièce filosofica, ma semplicemente di una farsa. Non ero d'accordo perché in un éerto senso tutti aspettiamo Godot. Poi Beckett venne a vedere lo spettacolo e quando un'attrice gli chiese se fosse avvilito per la mia interpretazione lui rispose: 'No, recitano che non si può andare avanti e quindi si può andare avanti e questo va bene, questo sono io' e questo è anche il mio. Il mio teatro è stato definito come teatro metaforico, o téatro polivalente. Infatti non ho mai fatto pièce che avessero un solo strato, ma sempre pièce che parlassero del mondo intero. Festa in giardino di Havel è una sorta di teatro sociopolitico, ma quando l'ho messo in scena non volevo che fosse solamente un pezzo politico in cui Pludek venisse identificato con il segretario del partito e così via, ma volevo che si riferisse a tutto il genere umano".

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