CONFRONTI Viaggioin un mare di storie Piergiorgio Giacché Si dice sempre che l'indagine antropologica è in fondo un'esperienza di viaggio, ma spesso poi ci se ne dimentica. Non sono tante - e sono anzi sempre meno - le relazioni di ricerca che sottolineano e suggeriscono al lettore la centralità di questa dimensione. Del resto la loro stesura comincia dopo, talvolta molto dopo l'arrivo e in essa l'antropologo ha da riferire i risultati e non i tentativi, i documenti etnografici e non gli errori o le approssimazioni. È forse per questo che involontariamente sottolinea le soste piuttosto che gli spostamenti, esibisce egli materiale statico, come fotografico, e valorizza la soddisfazione e la sedentarietà dell'osservatore "partecipante", mentre si smarrisce del tutto la sensazione di uno sguardo in movimento e il senso dell'essere uno straniero di passaggio, che è la verità e anche la "qualità" del viaggio. Ci si ricorda invece paradossalmente della dimensione del viaggio, della rapidità, della precarietà, della faticosa estraneità al contesto, quando la distanza percorsa non è affatto vistosa, quando lo spostamento anzi è appena percettibile e quindi l'alterità del contesto e dell'oggetto è minacciata, ovvero è tutta da dimostrare. È questo il caso di molte indagini demologiche, ovvero di chi - anche al di fuori dei confini e degli interessi folklorici - sta conducendo ricerche antropologiche su aspetti e problemi attuali della sua stessa società e cultura, nel nuovo quadro, forse ancora da appendere, di quella che si è definita l'antropologia delle società complesse. In quella situazione ricordarsi di "essere in viaggio" può diventare indispensabile, può sostenere il metodo e aiutare lo stile di una relazione antropologica altrimenti impossibile: non sdossare l'habitus e lo sguardo del viaggiatore può essere un modo o un trucco necessario per guadagnare una distanza, per garantire l'esercizio di una osservazione dall'esterno, quando non ci si può dichiarare estranei alla cultura indagata. Questo è quello che ho pensato quando mi sono trovato in Salento a condurre una ricerca sulla "identità dello spettatore". Non si trattava di un'inchiesta di sociologia del teatro, né di raccogliere dati e informazioni sui consumi di spettacolo nel meridione d'Italia, ma di una indagine qualitativa tesa a individuare le più profonde e generali motivazioni ed obiettivi del- ]' essere spettatori. Così la scelta del Salento o del Sud non rispondeva a criteri di rappresentatività, ma a ragioni - o scommesse- di significativa varietà, vista la ricchezza antropologica di quello che era stato il terreno privilegiato delle ricerche su cui si è fondata l'etnologia italiana. Il Salento, ormai attraversato dalle stesse trasformazioni e cambiamenti che hanno ridefinito la società nazionale, risulta infatti ancora connotato da interessanti differenze e permanenze: sul piano della spettacolarità, erano e sono ancora presenti forme e modi che altrove non hanno più l'incidenza e lo spessore che dimostrano in quel contesto o presso quel pubblico. Il Salento ad esempio può vantare, accanto a un mercato aggiornato delle forme e dei linguaggi più aggiornati, una continuità e una vitalità delle proposte festive e spettacolari tradizionali, (molto diversa dal recente fenomeno diffuso in tutta Italia, del recupero e della reinvenzione della tradizione come nuovo reparto dei consumi turistici e culturali). Per di più il relativo ritardo e i rallentati ritmi della modernizzazione hanno creato il miracolo di una insospettabile e armonica compresenza, tra "tradizione" e "modernità" - almeno per quanto riguarda lo spettacolo. In altri tempi e luoghi della nostra stessa società fra le varie opzioni e consumi culturali si era invece registrata una dura contrapposizione e, proprio nel terreno delle mode spettacolari (molto più significativo di quel che si è soliti ammettere), si era rivelata decisiva e definitiva la battaglia che aveva imposto i modelli moderni e urbani contro quelli arretrati e rurali. In Salento non sembra affatto che le cose siano mai andate così: a fronte di una diffusione dei media e di un costante aggiornamento delle più disparate e innovatrici mode culturali (e i dati statistici sui consumi di spettacolo dimostrano che il Salento non si discosta affatto dalla media nazionale), le proposte spettacolari e culturali più arcaiche e popolari non si ritengono né si pongono in contraddizione ma semmai in competizione, arrivando a vivere e talvolta a vincere la concorrenza sul mercato. Accanto al cinema, alla televisione, alle discoteche, alle sfilate di moda, non soltanto sopravvive lo spettatore del teatro di prosa e della lirica, come ovunque, ma anche quello di fuochi d'artificio, di bande musicali, di giochi popolari, di riti religiosi, di danze tradizionali eccetera. E il segreto di questa convivenza sta certo nella circolazione del pubblico, ma anche nel fatto· che le forme di intrattenimento spettacolare e festivo confluiscono in un unico panorama di offerte, disegnano un continuum fatto di incroci e sovrapposizioni e accostamenti fra i pur diversi e separati "generi". Se si potesse azzardare, a partire dallo specifico effimero dello spettacolo, un discorso superficiale sui modelli culturali in generale, si direbbe che qui la modernità non è meno invadente e aggressiva che altrove, ma che è la tradizione a sentirsi più forte o meno minacciata. Forse una delle diversità del Sud è proprio questa e non riguarda soltanto lo spettacolo: la Tradizione non si comporta come permanenza ma piuttosto come "differenza", e pertanto invece di arroccarsi e irrigidirsi, porta avanti il suo naturale modo di evolversi, modificarsi, adattarsi, dentro e insieme al contesto sociale. La concorrenza della Modernità si avverte lo stesso, ma è magari quella che la spinge ad accelerare e a rendere più fluido e disinvolto il suo modo di cambiare e di camminare. Il risultato lo si vede nelle cose, quando si constata, ad esempio, la vivacità e l'evoluzione delle attività, delle aziende, degli interessi che ruotano attorno alla lunga stagione delle feste patronali: l'ideazione e la messa in opera degli addobbi e degli apparati, la costituzione e la circuitazione delle bande musicali, la produzione e la sperimentazione dei fuochi d'artificio, danno lavoro a decine di piccole imprese non solo a conduzione familiare (e si organizzano persino degli 'expo' nei quali si celebra lo sviluppo interregionale di un 'mercato della festa' che dunque ha un ruolo non trascurabile nell'economia locale). Ma non è lo "sviluppo" della tradizione la vera spiegazione di questa pacifica convivenza fra permanenza e innovazione: il fatto che la permanenza non sia vissuta come un relitto fa certo arretrare quell' atteggiamento di disprezzo e di distanza che in altri tempi e luoghi ha bollato tutte le forme tradizionali, ma questa è forse la conseguenza e non la causa di una diversità culturale che - magari appena percettibile - traspare comunque dalle interviste alle persone e dall'osservazione del loro modo di vivere e di pensare. Il primo risultato di una esperienza di ricerca antropologica è proprio questo: ancora esiste un Sud. Ma di seguito occorre 21
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