CONFRONTI centralizzate fin dall'epoca degli Svevi, autori ~ell'unico vero tentativo di creare un grande stato assoluto nella penisola. Semmai il problema storico della popolazione meridionale era esattamente l'opposto, quello cioè di aver dovuto subire una forte centralizzazione delle decisioni politiche e di aver imparato da sempre a utilizzare, dialogare, mediare con le istituzioni e le leggi dello stato. Lo strabordante apparato giudiziario, l'enorme contenzioso fra privati cittadini e amministrazioni pubbliche, che moltiplicava giudici e avvocati, personaggi centrali nella vita di ogni piccola o grande città meridionale, erano l'espressione più evidente di tale distorsione. Dunque, nulla di più falso dell' immagine di un Mezzogiorno che, prima dell'arrivo dei re sabaudi, non conosce forme istituzionali statuali, vive fuori della storia, reggendosi interamente su organizzazioni primarie, quali la famiglia e la parentela, e governandosi con leggi autonome, quali la faida e la vendetta privata. Eppure questa è la rappresentazione radicatasi nell'opinione nazionale. Intorno ad essa è stato costruito a poco a poco un quadro coerente. La categoria del familismo amorale che, come è noto, divenne celebre con il discusso libro di Banfield, sociologo americano che Putignano ilota di Carlo Garzia). . . .. i\ ... •) I' negli anni Cinquanta aveva osservato e analizzato un piccolo paese della Basilicata, servì poi a rafforzare la rappresentazione di un sud disgregato e fluido nello stesso tempo. Anche in questo caso la categoria scientifica subì una mutazione significativa. Jl farnilismo amorale, cioè la tendenza dell'individuo ad occuparsi solo della propria ristretta cerchia (padre, madre e figli) eludendo l'interesse collettivo, era causato, secondo Banfield, da una debolezza strutturale della famiglia meridionale, a predominanza nucleare, priva storicamente di organizzazioni di tipo patriarcale, che avrebbero invece abituato i singoli a misurarsi con strutture di solidarietà complesse e a contemperare i propri obiettivi con quelli dei componenti della famiglia estesa. Nello stereotipo, invece, esso divenne sinonimo di famiglia patriarcale, autoritaria e verticistica. In questo modo l'arretratezza meridionale si costituiva in un quadro coerente: stato e istituzioni pubbliche deboli - famiglia forte quindi patriarcale e gerarchica. Corollario importante era naturalmente la descrizione di una condizione femminile subordinata e oppressa. Chi ha osservato e studiato senza prevenzioni la società meridionale, sa benissimo che la famiglia patriarcale è pressocché assente (se si escludono quelle borghesi e aristocratiche dell'Ottocento e del primo Novecento, tratto che d'altronde è caratteristico di tutte le società europee del periodo). Come sa che le donne vi hanno una forza "tradizionale" senz'altro superiore a quella di altre donne italiane (divisione dei beni secondo un metodo paritario tra sessi, dote gelosamente custodita per tutta la vita dalle donne e trasmessa direttamente alla discendenza, enorme forza morale e contrattuale all'interno della famiglia, ecc.). Ma, appunto, non è la "verità" l'oggetto della comunicazione. Nelle affermazioni dell'altro si cerca solo una conferma di ciò che si ha in mente. Quello che conta è la congruenza dell'immagine, la semplicità del messaggio, la possibilità di tradurlo nel proprio linguaggio. Quando interpretiamo un altro, lo facciamo a partire da un certo sistema simbolico, lo inseriamo in un sistema di significati che fa parte di un bagaglio culturale costruito in un determinato contesto storico e nel corso della vita. Spesso scegliamo solo le informazioni coerenti con l'immagine precostituita; così la rappresentazione si rafforza, in un circolo vizioso, diventa realtà, nella misura in cui il rappresentato la accetta e, più debole, finisce per identificarvisi, la assume come propria. Mi è capitato spesso di sentire descrivere, come tratti che appartengono probabilmente all'Italia intera e a una precisa generazione, ma che, se accostati al termine Mezzogiorno, assumono ben altra valenza e convincono i meridionali, in difficoltà a fare comparazioni, di vivere una .condizione di unicità e di inferiorità secolare. Basta vedere la letteratura minore prodotta dal Sud sul Sud per farsene un'idea: si pensi a libri come quello di Laura Cardella sulla condizione delle giovani siciliane e alla sua oscena utilizzazione. L' interazione reciproca non significa automaticamente comprensione, come mostrano i terrificanti conflitti etnici, che stanno devastando parte dell'Europa dell'Est. Da questo punto di vista la fiducia dei meridionalisti in una pacifica osmosi di culture, a partire dalla conoscenza reciproca, si rivela una vera e propria illusione. Illusione d'altronde ancora ora radicata nel senso comune. È lo stupore il sentimento predominante di fronte alle vicende che stanno insanguinando un paese così vicino a noi, come la Jugoslavia. Possibile che persone che hanno vissuto insieme per secoli oggi si combattano in nome della diversità etnica e riusino immagini, pregiudizi, simboli che si radicano in avvenimenti di secoli e secoli fa? Convinzione di tutti è che lo scambio, l'interazione quotidiana possano produrre un'ibridazione fra culture che le omogeneizzi e induca quindi tutti alla tolleranza reciproca, superi i confini culturali ed etnici. La stessa idea ottocentesca che sostenne il progetto unitario e che impedì qualsiasi approccio 19
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