Linea d'ombra - anno X - n. 76 - novembre 1992

CONFRONTI Raccontare il Sud a cura di Piergiorgio Giacchè Gli interventi che pubblichiamo, rivisti dagli autori, sono stati detti al convegno "Raccontare il Sud", tenuto a Santa Cesarea Terme il 29 maggio scorso, e organizzato dalla nostra rivista in collaborazione con l'amministrazionecomunale di Santa Cesarea. Unadelle contraddizioni Stefano Rulli 1. Il mio primo incontro cinematografico con il Sud risale a quindici anni fa: Ceccano, un paese al confine fra Lazio e Campania. Lì, assieme ad Agosti, Bellocchio e Petraglia, raccontammo ne La macchina cinema la storia di un uomo che voleva realizzare un film dettato da un morto. Una seduta spiritica, un teschio che danzava sul tavolo a dettare il nome del protagonista: Loris. Poi le decine di persone che, in un clima irreale fra festa di paese e rito sacro, partecipavano a questo sogno collettivo, che prese poi la forma concreta di un super8. Avevo l'impressione di assistere ad una manifestazione di religiosità ancestrale, dove al culto dei mortis' era sostituito quello del cinema. Tutto sembrava bizzarro e ingenuo se confrontato col cinema "vero", il cinema-industria, il Cinema con la C maiuscola. Poi, andando avanti con l'inchiesta, cercando di cogliere i meccanismi non solo economici che muovevano il cosiddetto "cinema grande", a Cinecittà come ad Hollywood, mi resi conto che quel miscuglio di gioco e di mistero, di sacra rappresentazione e di vitalità volgare che mi avevano così colpito in quel piccolo film senza pretese e senza pubblico, era forse l'anima più vera di ogni cinema. Non è stata questa la sola occasione in cui alcune impressioni, percepite inizialmente come specifiche del Sud, mi hanno poi aiutato a capire qualcosa d'altro, qualcosa che si collegava in maniera più complessiva con la cultura d~l nostro paese. 2. Dieci anni dopo, lavorando a Meri per sempre, mi resi subito conto che la cosa che più mi emozionava, nelle testimonianze dei ragazzi siciliani detenuti al Malaspina raccolte da Grimaldi, era il loro sentimento del mondo. Mi colpiva il disincanto, la mancanza di emozione con cui i ragazzi raccontavano la loro uscita dal carcere o il rientro dopo pochi giorni o pochi mesi: quasi capitoli interscambiabili di una stessa condizione vuota. Dentro o fuori, tutto uguale. Tutto mescolato: legalità e illegalità si confondevano fuori, legalità e illegalità si confondevano tra le mura del carcere, dove le violenze dei carcerieri facevano tutt'uno con quelle dei detenuti, dove le rabbie degli uni non si distinguevano da quelle degli altri, dove potevi essere meno emarginato che fuori se sapevi essere un capo, dove la coscienza di sé era quasi inesistente ma i bisogni spesso enormi, radicali ... Questa emozione è stata il punto di riferimento costante, per me e per Petraglia, durante la stesura della sceneggiatura. Perché quella confusione di ruoli e valori non è solo del Malaspina, non è solo di Palermo, ma rimanda in qualche modo all'Italia di questi anni, un'Italia dove vecchie e nuove categorie morali e sociali si sono decomposte in una sorta di marmellata, dove violenza sottoproletaria e aspirazioni piccolo-borghesi formano ormai un tutt'uno inestricabile. Perché quel disorientamento non è solo dei ragazzi del Malaspina ma anche nostro. 16 Dalle testimonianze dei giovani detenuti emergeva inoltre, come corollario di questa indifferenza tra "dentro" e "fuori", un · sentimento del tempo particolare, senza futuro, disperatamente immobile. Un sentimento che Sciascia considerava profondamente siciliano. "La paura del domani e l'insicurezza sono tali da noi, che si ignora la forma futura dei verbi. Qui non si dice mai: 'domani andrò in campagna' ma 'domani vaju in campagna. Si parla del futuro solo al presente. E che futuro ci può essere in un paese dove il verbo al futuro non esiste?". Per questo, quando Meri, il travestito, nel finale del film parla di sé - né carne né pesce né uomo né donna - e del suo futuro, dice: "Io sono Meri ... Meri per sempre". Senza rabbia, senza indignazione, senza rimpianti per un "sarò" impossibile: il presente è l'unica condizione possibile. Anche Luciano e Rosetta, i due piccoli protagonisti de Il ladro di bambini vengono dalla Sicilia. Anche loro parlano al presente, senza voli. Solo cose concrete, bisogni primari: "sono stanca", "ho fame", "dove andiamo?", poche frasi che a volte neanche aspettano risposta. E nella parte che precede il finale, quella della "felicità", quella in cui, come in una povera utopia tutta concreta, la "traduzione ali' istituto" si trasforma in una bella vacanza, uno degli elementi di più violenta rottura, e appunto di utopia "alta", è in quell'improvviso, inaspettato parlare di Luciano al futuro, di quando avrà quindici anni e andrà a trovare Antonio. Il futuro è solo il sogno, sognato da Luciano per la prima volta, di una amicizia vera. Questo vivere dei personaggi nel presente, che racchiude in sé una dolorosa assenza di prospettive e insieme la consapevolezza di doversi reinventare la vita giorno per giorno, qui e ora, esprime una condizione esistenziale che non è più soltanto della cultura siciliana ma che nella cultura siciliana trova un modello per raccontare altri disagi, altre disillusioni, altre non certezze, provocate dal crollo di sistemi ideologici ritenuti fino a ieri incrollabili. 3. Fare film che parlano del Sud significa inevitabilmente doversi misurare con un modello culturale egemone che ha le sue radici nel neorealismo: il Sud come miseria da cui si è costretti a fuggire, e al tempo stesso come nostalgia per un'innocenza, per una natura incontaminata cui si vorrebbe tornare. Ma è proprio questo schema interpretativo e narrativo che a me sembra non reggere più. Se infatti nel finale di un film come Rocco e i suoi fratelli, profondamente segnato da questo nobile "veteromeridionalismo", il giovane operaio poteva ancora sognare per il fratello più piccolo il ritorno alla terra del sole e dei limoni, alla terra dei padri, trent'anni dopo l'Antonio de Il ladro di bambini torna sì, ma in un Sud dove il sogno s'è trasformato in un incubo: il suo paese devastato dal cemento, i parenti travolti dal mito del denaro, il mare scomparso dietro scheletri di palazzine non finite. Scrivendo la sceneggiatura de Il ladro di bambini abbiamo avuto molti ripensamenti sulle ragioni che spingevano Antonio a tornare al suo paese: forse doveva rivedere la sua famiglia, o versare la sua quota per riscattare una stanza della casa della sorella, o una quota del ristorante, o forse a ricondurlo era l'amore per la sua terra ... Ma erano tutte ipotesi che lo schiacciavano all'indietro, verso il rimpianto del passato, la nostalgia di un Sud che non esiste più. Alla fine ci è venuta l'idea della bambina che dice di volerlo denunciare: questo trasforma il suo ritorno al paese in qualcosa di più ambiguo, di meno retorico, quasi un ripiegamento animale per difendersi con l'affetto e la solidarietà della sua famiglia da quel senso di minaccia un po' demoniaca incarnato da Rosetta. Antonio

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