IL CONTESTO comprendere il "no alla guerra" nella costruzione della pace, i grandi cortei nei comportamenti di pace, gli slogan nei progetti concreti. Il movimento per la pace può e deve costruirsi una sua base sociale che non sia semplicemente la reazione - giusta - alle guerre e agli eventi sanguinosi del mondo (e sono numerosi e continui). Solo attraverso la costruzione della pace, la nonviolenza come politica, la capacità di radicamento - per imparare da Simone Weil- il movimento per la pace può uscire dalle tre gabbie del politicismo, dell'emergenzialità, del puro ricorso all'immagine. Per non parlare delle prigioni della ideologia (di quei pochi per fortuna - che vedono gli amerikani e il grande cqpitale dietro il conflitto della ex Jugoslavia) e della ontologia salvifica (le visioni apocalittiche e le speranze di fuga da un Occidente visto come nuovo Impero del Male). 3. Il movimento per la pace degli anni '80 era un movimento afisarmonica ( capace di espandersi o ritirarsi di fronte all' evento), condizionato dai partiti della sinistra, fortemente legato ad una vicenda simbolica (euromissili) e ad una unica sfida: scongiurare l'olocausto nucleare. Era un movimento viziato da eurocentrismo e - si passi il termine - disarmista. Ai blocchi davanti ai cancelli di Comiso si cominciò a sperimentare l'azione nonviolenta. Il movimento contro la guerra nel Golfo si colloca in un punto di passaggio, aperto a nuove forme di mobilitazione nonviolenta (come la disobbedienza civile e l'obiezione dicoscienza), ancora dentro a vecchie contraddizioni, quelle ricordate in precedenza. Rappresenta in ogni caso un punto alto di mobilitazione e di coscienza popolare contro la legittimazione di un massacro. Anche in questo caso un movimento radicato e diffuso nel suo apice. Ritiratasi l'onda, i temi di un rinnovamento, anche radicale, della cultura e della pratica della pace e della nonviolenza tornava a farsi forte. Spesso c'è un accanimento da parte dei mass media e degli opinionisti un po' inspiegabile - quasi fosse un inconscio esorcismo dei fallimenti e dell'impotenza propria - contro i pacifisti e le loro contraddizioni. Ciò non toglie che la riflessione deve essere rigorosa e partire dai nuovi compiti e dalle nuove forme che la nonviolenza e l'azione per la pace devono assumere di fronte alla mutata situazione internazionale, alle trasformazioni della società, al rinnovamento delle pratiche e delle modalità di una politica della nonviolenza che sia espressione .di un radicamento e non dell'emergenza. Un movimento che sia espressione di culture e valori alternativi, di fondo, forse minoritari, ma che incarni la critica del costume conformista, cinico, opportunista e indifferente di questo paese, a partire dal ritorno della retorica patriottarda e delle mostrine. È un ribaltamento di valori che serve. Gli esempi sono drammatici: ma non si capisce perché è lecito rischiare la vita, come Cocciolone, per andare a bombardare Bagdhad, ma se si tratta di rischiare per portare gli aiuti umanitari a Sarajevo, gli aerei Onu ed italiani si fermano per molte settimane, in attesa che "ci siano le garanzie e le condizioni sufficienti". La retorica del militarismo è della patria è ancora oggi egemone; e allora c'è molto da fare per il pacifismo sul terreno dei valori: formazione, educazione, cultura. Se il valore fondativo - o più semplicemente l'idea ricorrente - del pacifismo degli anni '90 è l'etica della responsabilità e della solidarietà e non solo (o non più) la reazione contro il pericolo di catastrofe nucleare (che pure è una forma di etica della responsabilità verso le generazioni future), il semplicistico binomio paceguerra o peggio un certo antimperialismo ideologico, allora è necessario rimettere in discussione politica e prospettive dell'impegno per la pace. 14 Insomma, nuove culture devono incontrarsi nel pacifismo, nuove forme organizzative devono radicarsi, nuove prospettive di autonomia dai partiti devono affermarsi affinché la protesta ed il rifiuto della guerra e di un mondo pieno di armi siano integrati, con la nonviolenza e la solidarietà, da un'azione sociale ed anche educativa nel cuore dei conflitti del nostro tempo. 4. Vi è.poi la questione della democrazia internazionale, della costruzione della pace attraverso gli organismi internazionali pensati a questo scqpo. Prevenzione dei conflitti, cooperazione internazionale, affermazione dei diritti umani, disarmo: queste alcuni compiti di un'azione delle Nazioni Unite, riformate e democratizzate. Ormai è matura una riflessione del movimento per la pace di fronte al tema della protezione, in caso di guerra, dei deboli, dei diritti umani dei civili, della vita degli inermi. Non basta dire no alla guerra, né invocare il dialogo. Va fatto, certo: ma in alcuni casi non è sufficiente. Come non è abbastanza appellarsi alle sedi internazionali di negoziato quando si continua a sparare. La nonviolenza è la via maestra, la prospettiva. La prevenzione è la scelta obbligata. Bisogna sperimentare e mettere in campo tutte le forme dell'azione nonviolenta. E se non basta ? Cosa facciamo qui e ora, nella ex Jugoslavia per esempio ? Se fosse possibile fermare la guerra e la violazione dei diritti umani, il massacro dei deboli, anche grazie alla deterrenza o all'uso collettivo e finalizzato della forza militare, il movimento pacifista dovrebbe opporsi in via di principio? Non sono casi astratti. Abbiamo davanti agli occhi drammi concreti: come far arrivare gli aiuti umanitari a Sarajevo, la chiusura dei campi di concentramento in Bosnia, le migliaia di vittime, i bambini morti. Adriano Sofri (l'Unità 28 agosto 1992) ha scritto che per Gandhi" ... L'uso della violenza per una causa giusta è comunque più lodevole di una vile accettazione dell'ingiustizia". E ancora: " ... la riorganizzazione delle istituzioni internazionali, capace di prevedere anche una sorta di polizia mondiale che possa intervenire per evitare nuove Cambogie o Bosnie o Somalie va visto in questo quadro. Naturalmente, i modi concreti, le tecniche, la logistica degli interventi, la limitazione dei rischi restano problemi difficili da risolvere: ma non certo insuperabili in presenza di chiarezza strategica, etica e politica". In sostanza può un movimento per la pace che si ispira alla nonviolenza politica accettare che ci sia un uso della forza extrema ratio, esercitato da un organismo superpartes, per porre fine alla guerra e ridurre la violenza complessiva, l'ingiustizia, la disumanità? È la questione dell'Onu, della sua democratizzazione, della sua reale funzione di governo mondiale. È questione concreta, di confronto politico, di democrazia internazionale. Non a caso la carta delle Nazioni Unite non è applicata nelle sue parti essenziali, soprattutto nel ruolo di prevenzione dei conflitti e di cooperazione. "Noi, popoli delle Nazioni Unite", dice la Carta. Ma non sono i popoli, né tanto meno i parlamenti, bensì i rappresentanti degli esecutivi a sedere nel Palazzo di Vetro. La polizia internazionale dell'Onu - per ricollegarci a quanto scrive Sofri - non è mai stata creata (Cap. VII della Carta) e la proposta di Boutrous Ghali (nel documento "Agenda per la pace") di creare un esercito sotto il comando diretto delle Nazioni Unite è fortemente osteggiata dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Insomma purtroppo l'Onu ancora non è credibile nelle sue funzioni imparziali di governo e nel suo funzionamento democratico (si veda Consiglio di Sicurezza e potere di veto) ed è ancora usato (guerra del golfo) dalle super-
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