le sue tragedie e i suoi drammi, ridotta a telenovela. Di storie che partono sempre da zero, come se il mondo cominciasse con loro. Di notizie riferite a spanna. Di refusi sparpagliati a grappolo. Di luoghi comuni e di frasi fatte insulse. Prendiamoci tutti una bella "pausa di riflessione": persuadiamoci che il lettore avrà sempre meno interesse a sbrodolature "a tutto campo" e che, nella "misura in cui" non impareremo a "portare avanti un discorso" diverso, avrà, "dal canto suo", ragione a leggerci sempre meno. Il giornale scritto e i giornalisti che lo scrivono devono poi riscoprire, oltre quello tecnico-informativo-linguistico, uno specifico etico-professionale, il quale non può non essere l'opposto del rampatismo carrieristico dominante nella carta stampata come nelle televisioni. Per un giornalista oggi il problema sta tutto in quella che don Milani chiama "non volontà d1 carriera". Senza presuntuose, snobistiche o masochistiche velleità missionarie e neppure grandi eroismi perché la forza della corporazione tiene a galla persino gli obiettori e gli apostati: il pane e un po' di companatico non glielo fa mancare, se si contentano di stipendi bassi, (sempre più alti comunque di quelli di un maestro o di un metalmeccanico), se non pretendono premi d'ingaggio, superscatti e superliquidazioni. Ma anche senza le impudicizie e i cinismi mutuati dai faccendieri e dai portaborse di quel sottobosco politico-affaristico col quale una fetta sempre più ampia di giornalismo si mescola e si confonde. Il vero problema del giornalista, in conclusione, è l'onestà. Ma, purtroppo, l'onestà ha lo stesso limite del coraggio, che chi non ce l'ha non se lo può dare. Eppure, come per il coraggio, chi non ce l'ha potrebbe venire aiutato a trovarne almeno un poco, se operasse in un contesto mediamente più alto di quello ora imperante, con l'alibi del modello imbecille, cialtrone e falso della tv. Quanto ai giornali, intesi come aziende, il problema di "vendere di più" va inquadrato meglio, stabilendo che cosa "venpere" e definendo in quale misura, a quale scopo, rispetto a quali livelli si cerca quel "di più". Per un giornale italiano, oggi, il problema è forse abbastanza eguale a quello dei partiti italiani: sbaraccare le megastrutture; ridimensionarsi, in coerenza con la propria funzione vera, tutta da recuperare. La soluzione, per un giornale, deve essere quella di cavar più profitti possibili dalla vendita di quante più copie possibili, indipendentemente da quel che c'è scritto dentro; di vendere quanta più pubblicità possibile, indipendentemente dai guasti sociali e culturali che può generare? Per un partito, la soluzione può essere quella di ramazzare quanti più voti possibili, indipendentemente da chi glieli dà e perché, al solo scopo di occupare quante più posizioni di potere possibili, indipendentemente dall'uso che di quel potere gli viene poi consentito o imposto? I giornali devono vendere e cavarne un profitto, certo; anche per essere davvero liberi. Ma vendere informazione su cui appoggiare e far crescere idee, pensiero, ragionamenti: un prodotto non producibile né vendibile con le stesse regole di mercato buone a produrre e vendere automobili, prosciutti o dentifrici; e i cui profitti non sono quindi misurabili sulle stesse logiche. Non se ne può più di tombole, riffe e lotterie; di supplementi vuoti e di regali inutili; di pubblicità infilata negli articoli e di articoli non scritti per il ricatto della pubblicità; della pornografia mascherata da sociologia: i lettori, oltretutto, han dimostrato di non essere così imbecilli come molti direttori li suppongono e quasi tutti gli editori li vorrebbero. Vendere senza vendersi, potrebbe essere la regola specifica per il giornale; e seguendola si potrebbe anche trovare la logica specifica su cui misurare il "di più" necessario e sufficiente, proporzionato al la specifica natura del prodotto. Perché il profitto, per il giornale-giornale, è come la "roba" per il drogato: gli ci vuole, ma un' overdose può riuscirgli altrettanto letale dell'astinenza. ILCONTESTO Tv·Caos Oreste Pivetta Il caos sotto il cielo televisivo sembra enorme. I tempi di Enrico Manca e di Biagio Agnes, quando la Rai stringeva alle corde emalmenava le reti Fininvest, sorretta da un bel competitivo spirito di corpo, sono finiti. Una fine lenta, progressiva, un declino animato dalle discordie di ogni genere, discordie a volte violente, a volte impreviste, attorno ad un corpaccione obeso, vorace, insaziabile, che vale ancora però un tesoro. L'atto di morte non è stato firmato e forse non lo sarà mai. Malgrado la gotta, la cirrosi epatica e il colesterolo, la Rai si è probabilmente conquistata l'immortalità. Dimostra qualche affanno, qualche preoccupazione dopo che hanno deciso di privatizzare l 'Iri; dopo il voto di aprile e dopo quello di Mantova; dopo le settimane spese dalle segreterie dei partiti, che si sono litigate le sedie della commissione di vigilanza; dopo la candidatura di Romano Prodi, commissario al posto dell'accoppiata psi-dc, Pedullà-Pasquarelli; dopo le insistenti proposte di privatizzazione ...Ma sarebbe necessario un Sansone, che spingendo le colonne di vialeMazzini, gridasse "muoio io con tutti i filistei". Ed invece Sansone non c'è e la sensazione è di tanti litiganti e di uno spalleggiarsi a vicenda, convinti che per non affondare tutti insieme qualche cosa bisognerà pur fare, visto che attorno le acque sono agitate e che il regime o il sistema qui e là scricchiolano e non è detto riescano aperpetuarsi in eterno. Anche se molti se lo augurano. Sempre meglio le vecchie abitudini lottizzatrici ad un imprevedibile e forse ingovernabile sconquasso. Ed allora resta difficile capire che cosa ci sia di vero e che cosa ci sia di recitato, per il teatro e per il palcoscenico, che cosa cambierà e se cambierà davvero, quali conseguenze avranno proteste, marce, rivolte e proposte. In fondo siamo solo teleutenti o tuttalpiù lettori. Che cosa dobbiamo capire noi del caso Funari o del caso Beautiful o del caso Vespa? Ad esempio Beautiful. Fininvest compera alcune centinaia di puntate del serial programmato da Raidue. Una distrazione degli uomini Rai al mercato di Cannes. Ma poi scoppia la lite in casa Fininvest, perché in realtà l'acquisto viene giudicato da alcuni non un affare, ma soltanto uno sgarbo alla rete socialista. Altro che concorrenza. Altro che mercato. In termini economici si chiamerebbe oligopolio collusivo. E Funari? Vero o no che lo scambio questa volta è stato solo di cortesie e che il siluro al popolare presentatore che s'è buttato in politica era stato ampiamente concordato da una parte e dall'altra? Altro che Berlusconi censore: la responsabilità è doppia, del duopolio cioè (anche quella di aver esaltato Funari come un martire della libertà, un perseguitato politico, che senza rimorsi può dichiarare: "Ho in mente un progetto di comunicazione globale, sponsor compresi. Utilizzerò tutti i mezzi di comunicazione, compreso il piccione viaggiatore, per parlare di politica e far parlare i politici. Chi pensava di farmi tacere allontanandomi dalle sei reti principali, si è sbagliato"). E Bruno Vespa, direttore del Tguno? Stiamo ai giornali: "sfiduciato" dai suoi redattori (cioè gli hanno tolto la fiducia), perché troppo democristiano, asservito, lottizzato. Lui che aveva dichiarato la Dc il suo azionista di riferimento, resta in sella. Certo non lo abbandoneranno, solo perché una assemblea di redattori ha votato a maggioranza contro la sua gestione. Ma gente come noi, tra i normali che guardano la tv e leggono i giornali, si chiederà come è possibile che non se ne vada lui un po' incazzato un po' avvilito. Invece lo si vede in video inesorabile far la parodia a Chiambretti, senza il dono del grottesco. Intervista 9
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