IL CONTESTO modello televisivo l'aveva impostato il giornalista statunitense Carl Bernstein, uno dei due cronisti dell'inchiesta Watergate, ma nessuno degli autorevoli colleghi italiani intervenuti nel dibattito s'è provato ad approfondirlo, a calarlo nello specifico nostro; e meno di tutti quelli che, lavorando contemporaneamente alla tv e nei giornali, dovrebbero avere forte voce in entrambi i capitoli. Occorrerebbe invece un'analisi attenta del perché della trasposizione acritica, non sai se più pigra, stupida o truffaldina, dello stile televisivo sui giornali; e prima ancora sulla legittimità e opportunità di quello stile, che probabilmente non è neppure davvero televisivo ma che ci si ostina a credere tale; e soprattutto a farlo credere, per inerzia, per tornaconto politico travestito da esigenza economica, per ignoranza, per conformismo. Chi ha certificato'e codificato che sia "televisivo" imporre ragionamenti asfittici; intimidire gli intervistati a colpi di "dica brevissimamente", "spieghi in estrema sintesi", "riassuma in venti secondi", "questo è fuori tema"? Come se intervistati e intervenuti ai dibattiti televisivi fossero tutti incapaci di articolare parole e pensieri; o pericolosi eversori cui impedire sconfinamenti dal territorio assegnato picchettandogli i limiti della ragione e della logica. Come se gli ascoltatori fossero tutti ebeti incapaci di seguire lo svolgimento di un pensiero, di concentrarsi su un problema o un argomento oltre qualche secondo; se la posta in gioco non fosse (ma spessissimo non lo è davvero) quella di dare informazione, di comunicare e stimolare idee e sentimenti bensì di tenere la gente inchiodata, non importa se rimbecillita, purché entri di dritto o di rovescio nel conto auditel, per approssimativo e opinabile che sia; e ingurgiti gli spot più beceri e imbroglioni. Oppure i padroni del vapore editorial-giornalistico vogliono che "televisivo" diventi sinonimo di imbecille e cialtrone? Il sospetto deve averlo avuto anche Giancarlo Bosetti se già nel presentare l'intervista a Giulio Anselmi, vice direttore del "Corriere della sera" , soltanto la quarta di una lunga serie, annotava: "Le simpatie per le accuse rivolte da Cari Bernstein al giornalismo degradato a "idiozia" dal suo inseguimento della televisione diminuiscono via via che ci si avvicina alle responsabilità di direzione dei grandi giornali italiani" ("l'Unità", 29 giugno). Due altri problemi di fondo dell'informazione, parlata e scritta, del nostro paese sono stati invece appena sfiorati nei due dibattiti; e soltanto da alcuni degli intervenuti: quello dell'asservimento (volontario o subìto fa poca differenza) dei giornali e dei giornalisti italiani al potere, politico e/o economico; e quello della sempre più corta memoria storica, sociale e culturale del nostro giornalismo. Sul primo problema, il decano dei giornalisti italiani in carriera, Indro Montanelli, rivendica con orgoglio di non essersi "mai sentito utilizzato dal potere". E a riprova dice: "Se io fossi stato utilizzato dal potere a quest'ora sarei senatore a vita" ("l'Unità", 25 giugno). "Non basta rifiutare un'onorificenza, bisogna non aver fatto nulla per meritarla", telegrafarono, se ricordo bene, i musicisti del Gruppo dei Sei a Debussy apprendendo che il maestro aveva rifiutato la Legion d'onore; e fu l'unica nota stonata nel coro consenziente degli ammiratori. Montanelli non è senatore a vita; ma, a quanto giornali, radio e televisioni hanno scritto e detto, soltanto perché ha rifiutato lui la nomina, non perché non se la sia meritata apparendone degno (e utilizzabile) al potere, che nella persona di Cossiga l'aveva proposta. L'altro problema, della memoria tanto corta da risultare spesso smarrita, richiederebbe un discorso molto disteso e articolato, impossibile qui. Una premessa comunque la si può fare: la memoria dei giornali, e per essi dei giornalisti, si accorcia sino a smarrirsi lungo due strade: l'ignoranza e la pigrizia. Due strade 8 Politico e lv, una fato di Cosima Scovolini (Contrasto). che portano diritto al pressapochismo, quando va bene; e se no alla cialtroneria. È vero quel che sostiene Eugenio Scalfari ("l'Unità" del 2 luglio): il livello culturale medio dei giovani giornalisti italiani è oggi molto più alto di dieci, venti, trent'anni fa. Quasi più nessuno s'affaccia al mestiere con spirito bohèmien e ubbie anarcoromantiche, quasi tutti sono laureati, sanno le lingue, puntano alla specializzazione; e a carriere solide e garantite. Ma altrettanto vero è che il livello medio, culturale ed etico, del giornalismo italiano non ha fatto un salto di qualità proporzionale; che se non è proprio precipitato certo non si è innalzato. La situazione del nostro giornalismo è parallela, in fondo, a quella generale del paese, il cui livello materiale di vita si è molto innalzato dopo la seconda guerra mondiale ma i cui livelli di moralità, di civismo, di consapevolezza, di responsabilità, di solidarietà sono mediamente e proporzionalmente restati com' erano e su certi punti hanno segnato anzi profondi cali, in conseguenza anche della mancata o insufficiente crescita dei livelli di tensione giornalistica. Ma la responsabilità della mancata o insufficiente crescita è davvero tutta e soltanto del "modello tv"? "Un problema dei giornali italiani è che hanno bisogno di vendere di più; "l'Unità" compresa, ma per vendere di più su quali carte si deve contare?" chiede a Enzo Biagi e a se stesso Giancarlo Bosetti (30 giugno). Quali siano le carte giuste, se ci sia un jolly toccasana, non si è saputo. Con evidenza crescente si è invece capito che la carta più sbagliata è certo quella su cui sempre più si punta: arrancare dietro una mitica formula televisiva, già probabilmente errata per la televisione; certo perdente, e sulla lunghezza suicida, per i giornali. Una carta giusta potrebbe essere cercar di dare coi giornali quanto la tv non dà, in parte perché non può, a causa del proprio specifico, linguistico e tecnico (lo specifico reale, non quello inventato); in parte perché non vuole, a difesa del proprio tornaconto, politico o economico. Al giornale scritto, e ai giornalisti che lo scrivono, tocca invece riscoprire un proprio specifico tecnico-informativo-linguistico, che non può non essere il contrario di quello della tv, anche correttamente inteso: umiltà di ricerca e di studio, pazienza e puntiglio di analisi, impegno artigianale antisciatteria. Non se ne può più di scoperte quotidiane dell'acqua calda. Di pseudo inchieste inconcludenti. Di esclusive inesistenti. Di interviste e dibattiti chiusi nel punto in cui stanno per iniziare, cioè appena la sostanza di un problema comincia ad affiorare. Di vicende lasciate a mezzo. Di personaggi inventati. Della vita, con
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