I ( ( I C' ' NOVEMBREl 992 - NUMERO76 LIRE9.000 I mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo \ I { ) \ UN'INEDITO DIENRICO FERMI \ . ITALIA, TEMP\DIFFIClll/N'RRARE_ ILSUD LEONARDO B FF:COLVANGELO ECON\M ( \ \ \
1992 . L'evoluzione francese 1966. 1992 . Stnl ali tu ·o Garzantidi Francese. DizionarioGarzantidi Francese:completo,innovativo, piree scrivereil francesedi oggie di ieri. a quellospecialistico,da1Ieforme_gergaliai neologia quelloscientificoe commerciale,dallagrammatica ionifigurateall'argot,dallatradizioneall'attualità, ambia.
I NOVITÀ I M. K. Gandhi SULLA VIOLENZA Un'antologia del pensiero gandhiano in funzione dell'oggi, del bisogno di una nuova morale individuale e collettiva. I fini e i mezzi , lotta armata, socialismo, stato, l'aborto, l'eutanasia, la violenza sugli animali. a cura di Giuliano Pontara. Lire 15.000 Mori Ogai L'INTENDENTE SANSHO. Una antica cronaca ri-narrata da un grande scrittore. La forza e la pietà, la morale collettiva e quella familiare. a cura di M. Mastrangelo e M. T. Orsi. Lire 12.000 Gunther Anders e Claude Eatherly IL PILOTA DI HIROSHIMA. Ovvero: La coscienza al bando. Un carteggio illuminante il dilemma centrale della modernità. Prefazione di Bertrand Russell e Robert Jungk. Lire 15.000 I SONOGIÀUSCITI Friedrich Schiller IL DELINQUENTE PER INFAMIA. Lire 12.000 Goffredo Fofi I LIMITI DELLA SCENA. Lire 12.000 Baker Miller, Bentovim, Bettelheim, Chasseguet-Smirgel, Glasser, Green, Grunbaum, Hartman, Ignatieff, Marcus, Mitchell, Pedder, Rieff, Segai, Spillius, Steiner, Turkle, Young. PRO E CONTRO LA PSICOANALISI. Lire 15.000 Aldo Capitini OPPOSIZIONE E LIBERAZIONE scritti autobiografici a cura di Piergiorgio Giacchè. Lire 12.000 Interviste con gli scrittori di "Linea d'ombra": 1 UN LINGUAGGIO UNIVERSALE Parlano: McEwan, Barnes, Ballard, Swift, Ishiguro, Rushdie, Kùreishi, Banville, Gallant, lgnatieff, Ondaatje, Gordimer, Coetzee, Breytenbach, Soyinka, Desai, Ghosh, Frame Lire 15.000 2 TRA DUE OCEANI Parlano: Barth, Bellow, Carver, De Lillo, Doctorow, Ford, Gass, Highsmith, Morrison, Ozick, H. Roth, Singer, Vonnegut. Lire 15.000 Marco Lombardo Radice UNA CONCRETISSIMA UTOPIA Lavoro psichiatrico e politica Lire 12.000 Lev N. Tolstoj DENARO FALSO Lire 12.000 Gunther Anders DISCORSO SULLE TRE GUERRE MONDIALI Lire 12.000 Boli, Chomsky, Eco, Gordimer, Grass, Hall, Halliday, Konrad, Rushdie, Sontag, Thompson, Vonnegut GLI SCRITTORI E LA POLITICA Lire 12.000 Aldo Capitini LE TECNICHE DELLA NONVIOLENZA Lire 12.000 Albrecht Goes LA VITTIMA Lire 12.000 Berardinelli, Bettin, Bobbio, Flores, Fofi, Giacchè, Lerner, Manconi, Sinibaldi A PROPOSITO DEI COMUNISTI Lire 12.000 Heinrich Boli LEZIONI FRANCOFORTESI Lire 12.000 Amis, Beli, Bellow, Briefs, Castoriadis, Dahrendorf, Galtung, Gellner, Giddens, lgnatieff, Kolakowski, Lasch, Paz, Rothschild, Taylor, Touraine, Wallerstein IL DISAGIO DELLA MODERNITÀ Lire 12.000 Francesco Ciafaloni KANT E I PASTORI. Identità e memoria Lire 12.000 Arno Schmidt IL LEVIATANO O IL MIGLIORE DEI MONDI Lire 12.000 Engels, Tolstoj, Gandhi, Benjamin, Weil, Bonhoeffer, Caffi, Capitini, Fanon, Mazzolari, Arendt, Bobbio, Anders VIOLENZA O NONVIOLENZA
Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lemer, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra,. Enrico Alleva, Guido Armellini, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Matteo Bellinelli, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Ben, Paolo Beninetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norbeno Bobbio, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Caterina Caipinato, Bruno Canosio, Cesare Cases, Robeno Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenw Consolo, Vincenw Cottinelli, Albeno Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Robeno Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Edoardo Esposito, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Albeno Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Robeno Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Robeno Koch, Filippo La Pona, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Madema, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Robena Mazzanti, Robeno Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Pigni, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Rarnondino, Michele Ranchetti, Marco Revelli, Marco Restelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Robeno Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scamecchia, Domenico Scaipa, Maria Schiavo, Franco Serra, Joaquin Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Taipino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti . Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Amministrazione: Patrizia Brogi Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: Marco Capietti, Luigi de Luca, Osvaldo Majorana, Gabriella e Mario Napoleoni, Alessandra Serra, Barbara Veduci, l'amministrazione Comunale di Santa Cesarea Terme (Lecce), il Goethe lnstitut di Milano, le riviste "Segno" di Palermo e "Palabra Suelta" di Montevideo, le case editrici Sindbad (Parigi), Einaudi, Giunti e Feltrinelli, le agenzie fotografiche Contrasto, Effigie e Grazia Neri. Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 20124 Milano Tel. 02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie POE- Viale Manfredo Fanti 91, 50137 Firenze -Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Rossini 30 Trezzano S/N - Te!. 02/48403085 LINEA o:OMBRA Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo mno% Numero 76 - Lire 9.000 I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo in grado di rintracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperareagli obblighi relarivi. LINDE'AOMBRA anno X novembre 1992 numero 76 4 5 7 9 11 13 16 18 21 23 24 26 29 40 56 67 74 81 45 64 50 54 83 38 Luigi Manconi Marino Sinibaldi Giorgio Pecorini Oreste Pivetta Leonardo Boff Giulio Marcon Stefano Rulli Gabriella Gribaudi Piergiorgio Giacchè Francesco Spada Salvatore Tramacere Paolo Bertinetti Gabriella Giannachi POISIA Andrew Motion IDI Horacio Vazquez Rial ErikStinus Villy S~rensen J ohn Mortimer INCONTRI Adonis Mario Benedetti SAGGI J uan J osé'Saer Witold Gombrowicz William H. Gass SCIENZA Enrico Fermi C'è speranza a Palermo? Tempi difficili Giornalisti 1.Vendere senza vendersi Giornalisti 2. Tv-Caos Col Vangelo e con Marx incontro con Katharina Sperber La politica della nonviolenza Narrare il Sud Una delle contraddizioni Il peso degli stereotipi Viaggio in un mare di storie Parlare per immagini Ogni volta da zero L'India di Narayan Panorama del teatro cèco contemporaneo Sogno di pace e altre poesie a cura di Paola Splendore SLoria del triste a cura di Fabio Rodriguez Amaya Roghi al centro del mondo a cura di Ludovica Koch I condannati a morte e altri racconti a cura di Caterina Testa Un esemplare raro a cura di Paolo Bertinetti Metafore radicali a cura di Fabio Gambaro 500 anni d'America a cura di Kintto Lucas Combrowicz in Argentina Mendoza Esilio a cura di Daniela Daniele Una scoperta ogni venti giorni ... con una nota di Emanuele Vinassa de Regny La copertina di questo numero è di Giulio Scarabottolo (Arcoquattro ). Linea d'ombra è stampata su carta ricidata Freelife Vellurn white - Fedrigoni
ILCONTESTO Questo articolo viene pubblicato contemporaneamente sulla rivista palermitana "Segno" (n. I38), diretta da Nino Fasullo. Vincino, il più acuto analista politico della città di Palermo, ha scritto in un suo disegno ("Cuore", n. 78, 27 luglio 1992): "Voi non conoscete i nuovi giovani di Palermo. Gente nata in Europa, che legge due o tre quotidiani nazionali, informati su tutto, dalle ultime novità tecnologiche agli ultimi tipi di computer; gente che sa tutto di ecologia, dell'ultimo romanzo americano come dell'ultimo libro della Feltrinelli e della Sellerio, gente dolce, calma, misurata, democratica e incazzatissima". E concludeva: "Come si fa ad avere 20 anni sotto il regno dei Madonia ?". Vincino riscrive, attraverso quell'interrogativo, la più classica delle contraddiz.ioni marxiane: la contraddizione tra sviluppo delle forze produttive ("nuovi giovani" che leggono due o tre quotidiani, curiosi di tutto, dal1'informatica ali' ecologia, consapevoli e ribelli) e rapporti di produzione ("il regno dei Madonia", i I sistema politico-criminale a Palermo). Ovvero il contrasto, atroce fino al dramma, tra intelligenza colletti va, bisogni sociali e volontà di emancipazione, da un lato, e dominio della criminalità organizzata, dall'altro. Cito Vincino perché ciò che dice corrisponde a quanto io capisco di Palermo - dal momento che non vi risiedo regolarmente - e a quanto io credo di scorgere negli studenti che frequentano i corsi della facoltà di Magistero. Ma scorgo quasi solo questo. Da qui la mia riluttanza a scrivere di Palermo: tanto poco la conosco e tanto poco la capisco. Dunque, la mia può essere solo la testimonianzadi uno scoramento, c!ifficile a dirsi perché comporta una dichiarazione di sfiducia indirizzata a gente sfiduciata, un messaggio di non speranza inviato a chi è indotto, da tutto e tutti, a disperare. E, tuttavia, il ragionamento che intendo fare è politico: a Palermo non vedo percorsi e modalità di mobilitazione efficace perché su tutto prevalgono, a mio avviso, due contraddizioni irrisolvibili. O, almeno, che a me appaiono non risolvibili: la contraddizione del garantismo e la contraddizione del populismo. Mi spiego. Ritengo, da circa un quindicennio, che il garantismo 4 C'è speranza a Palermo? Luigi Manconi Foto di Eligio Pooni (Contrasto). sia un sistema di regole e di procedure, di diritti e di garanzie e, insieme, un fondamentale valore che deve orientare la lotta sociale e politica. Ebbene, mi sto convincendo che ciò sia improponibile a Palermo. Da anni, a Palermo e per quanto riguarda Palermo, "sto con Di Lello" e col solo Peppino di Lello: e tuttavia mi sembra una linea così minoritaria che solo un magistrato valoroso, e impegnato in prima linea come lui, può adottarla. Per intenderci, quando Antonino Caponnetto dice che a Palermo ci vuole l'esercito, io inorridisco: "ma lo dice Caponnetto", e io capisco di non poter contestare tale frase con gli stessi argomenti con i quali contesterei una analoga dichiarazione riferita a un'altra autorità (politica, istituzionale, morale). In altre parole, non si può criticare il parere di Caponnetto solo con argomenti razionali, dal momento che la sua opinione appare autorevole e persuasiva non perché argomentata o perché dotata di una sua logica interna, ma perché espressa da quella persona e in quella circostanza. E, soprattutto, perché quell'opinione risulta, in determinate condizioni, indiscutibile e inconfutabile. Come discutere e come confutare, infatti, un'opinione che sembra non avere alternative? e che sembra davvero l'unica, date le circostanze?La dittatura delle circostanze - spesso richiamata come un regime che non ammette repliche, alternative e vie d'uscita - nel caso di Palermo si impone con una forza ancora maggiore. Più che nel caso del terrorismo: allora, nei confronti dei militanti della lotta armata, agivano anche delle componenti di sotterranea (e indicibile) "simpatia"; o di mancata ostilità. O di contorto riconoscimento di motivazioni non solo criminali. Questo rendeva più difficile per i non garantisti reclamare misure d'emergenza e leggi speciali.E, tuttavia, è stato fatto. Nel caso della mafia, l'odiosità senza attenuanti dei nemici-mafiosi rende quelle "circostanze eccezionali" un argomento così irriducibile da non consentire discussione: e tanto è maggiore e assoluta quell'odiosità - tanto deve dirsi maggiore e assoluta - tanto più richiede provvedimenti "bellici". Come l'esercito in Sicilia. O la "lotta armata contro la mafia" (che non è un "auspicio", ha precisato Nando Dalla Chiesa su "L'Unità" del 11.9.92, ma potrebbe trasformarsi in una "necessità", dal momento che "le soluzioni di fronte alle quali si trova un popolo aggredito da una dittatura armata, storicamente sono due: o difendere la propria libertà pagando prezzi altissimi o cedere la propria libertà"). Chi, come me, nel decennio '77-86 ha cercato di lavorare per il rispetto delle garanzie (di tutte le garanzie) nei confronti dei militanti della lotta armata (di tutti i militanti della lotta armata), oggi si trova imbarazzato a rivendicare la stessa tutela giuridica per Pippo Madonia. Sia chiaro: non dubito che sia giusto e, forse, persino produttivo - dal punto di vista teorico come da quello pratico - garantire quella tutela, ma non mi sento in grado-dal punto di vista teorico come da quello pratico - di argomentarlo a Palermo. (Analoghe considerazioni ha svolto Andrea Colombo in un articolo, "Scacco al garantismo", pubblicato dal "Manifesto" del 26.8.92). Non mi riferisco solo al garantismo giuridico e processuale. Parlo anche di garantismo politico: e, dunque, delle forme e del linguaggio della lotta politica. Nella lotta politica, il deficit di garantismo può manifestarsi in modi opposti e speculari: a) come ricorso a strumenti giudiziari manovrati sommariamente a fini politici; b) come ricorso a mezzi plebiscitari sul piano sociale (tramite la "mobilitazione sentimentale" delle masse) o sul piano politicoistituzionale (tramite coalizioni di governo di tipo consociativo). Queste due differenti soluzioni vengono adottate, in genere, da gruppi diversi; ma talvolta vengono utilizzate - o alternativamente o contestualmente - dal medesimo gruppo. In ogni caso, si tratta di soluzioni che, tutte, presuppongono e riproducono una situazione di emergenza. È la situazione di emergenza-quella delle circostanze date - che sembra imporre la strategia emergenziale: nella lotta alla criminalità così come nella politica dei partiti, dei movimenti, delle istituzioni. Le norme anti-garantiste nei confronti dei mafiosi sembrano ispirarsi alla stessa logica che impone una soluzione consociativa per la giunta regionale siciliana. Io credo che questo sia un errore: ma, come ho detto, non sono in grado di oppormi a tale logica. Analogamente, ho difficoltà a esprimere i miei dubbi nei confronti del populismo anti-mafioso. E, infatti, "le ragazze di Samarcanda" che urlano il loro odio contro Salvo Lima appena morto suscitano in me reazioni contraddittorie: sto interamente dalla loro parte, dalla parte dei loro sentimenti e della loro disperazione (e delle ragioni del loro odio), ma devo dire che non condivido pressoché una sola parola di quanto dicono. E tantomeno condivido i frammenti di discorso politico rintracciabili in quelle parole e le linee di strategia politica che altri (militanti e dirigenti della Rete, in primo luogo) ne ricavano. (In proposito ha scritto cose molto giuste Ida Dominijanni sul "Manifesto" del 27.9.92). Non condivido, in particolar
modo, il linguaggio populista che quella strategia adotta: ma ritengo quel linguaggio la forma politica obbligata della mobilitazione collettiva a Palermo. Una forma politica fragile a tal punto da far dubitare della sua utilità. E, tuttavia, obbligata perché le altre vie risultano sbarrate: e perché è la sola capace di produrre un qualche esito sul piano della soggettività sociale. In sostanza, quella mobilitazione permette a migliaia di giovani (ma anche di non giovani) di mobilitarsi: in una situazione dove la possibilità di mobilitazione collettiva non è un presupposto e un diritto ascritto. Dunque, a Palermo, la mobilitazione costituisce un valore in sé, che modifica la mentalità di segmenti di popolazione e produce- particolarmente in alcuni strati giovanili-maggiore consapevolezza, maggiore autonomia, maggiore senso di responsabilità. E l'idea che sia possibile-virtualmente, se non altro - una politica diversa dal modello affaristico-malavitoso oggi dominante. Dunque, quella mobilitazione allarga lo spazio democratico e amplia i diritti di cittadinanza nel "regno dei Madonia". È poco? È molto? Certo, non è sufficiente a segnalare percorsi stabili di organizzazione e di azione; e, tanto meno, è sufficiente a indicare efficaci forme di intervento sul piano politico-istituzionale. E, allora, dico che davvero non ho la minima idea di cosa si possa fare a Palermo per Palermo, e che consegno queste pagine solo perché Nino Fasullo ha ritenuto in qualche modo utile che mettessi per iscritto ciò che, periodicamente, mi capita di dirgli. Sapendo quanto ciò possa apparire un tradimento a chi, a Palermo, ancora si batte con disperata speranza, sono indotto a condividere ciò che ha scritto Marino Sinibaldi su "Linea d'ombra" n. 74 (settembre '92). Ovvero che - se c'è, in questa città, una possibilità di impegno non solo individuale - sta in qualcosa di lontano e diverso dalla politica, dalle sue attuali forme e dal suo attuale sistema di valori. Qualcosa che, cinquant'anni fa, Nicola Chiaromonte (richiamato da Sinibaldi nel succitato articolo) così definiva: "In questo stato di cose, per coloro che decidevano di non arrendersi, l'affili azione politica aveva poca importanza, mentre ciò che realmente contava era la presa di posizione morale, e la ricerca di rigore intellettuale assunse la stessa urgenza di quella del pane quotidiano" (N. Chiaramente, Il tarlo della coscienza, Il Mulino 1992, L. 34.000). Il riferimento di Chiaromonte è al regime fascista e, dunque, nessuna facile trasposizione è consentita: ma, nel sistema democratico italiano, il "regno dei Madonia" può acquisire una capacità di controllo sul territorio-e sulle menti e sugli atti degli individuiche è propria dei sistemi totalitari. In una tale situazione, per Chiaromonte, la "questione morale" consisteva nello "scegliere ciò che ciascuno sarebbe dovuto essere, indipendentemente dalla possibilità di successo che aveva". Credo che oggi, a Palermo, anche la questione politica, oltre che la questione morale, consista esattamente in ciò. A confermarlo ci sono i tratti biografici di due che hanno deciso di "non arrendersi"; e che hanno investito, in primo luogo, sulla propria responsabilità individuale e professionale. Penso a Paolo Borsellino e a Rosario Livatino. Le loro biografie, le loro culture, i loro stili di vita e di azione risultano così incomparabi I mente di versi da quelli ILCONTESTO che siamo abituati a riconoscere nei nostri interlocutori e nei nostri alleati, da apparirci assai singolari. Singolare la militanza nel Msi (o nel Fuan) di Borsellino; singolare il fatto che Livatino, dopo aver depositato l'ordinanza di rinvio a giudizio dei mafiosi di Agrigento, scriva nel suo diario: "Oggi, dopo due anni, mi sono comunicato. Che il Signore mi protegga ed eviti che qualcosa di male venga da me ai miei genitori...". Per certi versi, è proprio l'anomalia di queste figure a costituire una delle poche novità siciliane. Saldare, o anche solo collegare, quei singolari percorsi biografici e professionali ai sistemi di azione pubblica e di mobilitazione collettiva, mi sembra davvero impresa ardua: e forse anche scorretta, se non pericolosa. E, tuttavia, è impresa che va tentata, con grande intelligenza e sensibilità: "astuti come serpenti", ma "candidi come colombe". E consapevoli che si tratta di una terribile fatica, dall'esito assai incerto. Intanto, già ora, è importante cominciare a conoscere, rispettare e valorizzare quei percorsi biografici e professionali anomali: prima che si riducano ad altrettanti necrologi. Tempi difficili Marino Sinibaldi Cosa sappiamo in fondo delle Crisi, delle grandi cns1 economiche? Che qui, nel PrimoMondo, periodicamente arri vano, riducono più o meno sensibilmente consumi e standard di vita, rimescolano almeno marginalmente fortune e gerarchie sociali. E dunque, in modo sempre imprevedibile, cambiano le cose: la politica, la cultura, la vita pubblica delle nazioni. Ma di questa crisi, della crisi che in questo autunno italiano ha davvero chiuso i lunghi anni Ottanta e annunciato la nostra fine secolo, sappiamo ancora meno. Non solo perché è difficile capire davvero cosa comporterà, dato che nel capitalismo ipermaturo anche un fatto così fisiologicamente materiale sembra invece appartenere a una realtà virtuale di grandi speculazioni, movimenti finanziari, enigmi monetari. (E dunque non siamo ancora in grado di sapere se gli italiani dovranno fare a meno dei telefonini e magari di consumi più nobili e però egualmente superflui, o se invece gli effetti saranno più aspri e profondi). Ma perché in Italia questa crisi colpisce una società profondamente mutata, notevolmente arricchita, completamente ridisegnata dalla lunga bonaccia degli ultimi dieci, quindici anni. E soprattutto si intreccia con una crisi di altro genere, con la destrutturazione e la delegittimazione dell'intero sistema politico e delle sue istituzioni, con la degenerazione morale dell~ nostra cosiddetta società civile. Lacombinazione tra la recessione economica e una crisi morale è storicamente l'evento più minaccioso che possa colpire un paese. Ciononostante non sembra che la coscienza intellettuale italiana sia allarmata. Certo, mancano gli strumenti per capire e per agire: la faticosa liberazione dagli schemi che avevano oscurato la nostra comprensione della realtà è ancora in corso, ancora insufficiente. E ora invece tutto, la politica, l'economia, lo scontro sociale sembra regredire alla logica delle fazioni, delle corporazioni e dei bulloni. Può essere, come qualcuno crede o fa finta di credere, che questa sia in fondo la logica della storia. Che non solo le classi esistono davvero e nonostante tutto, ma che è unicamente la loro continua contrapposizione a decidere il futuro. E, per essere chiari, le classi, i partiti e le persone chiamate a governare questa crisi, sembrano praticare a oltranza questa concezione della storia: le misure finora annunciate e previste sono in questo senso tipiche non solo per la loro iniquità, ma perché non mostrano nessuna capacità di colpire la ricchezza che in questo paese si è prodotta. E che si è diffusa - questo è il dato in realtà sufficiente a smentire tutte quelle concezioni e quelle posizioni - in zone amplissime della società, ben al di là delle sue tradizionali divisioni e stratificazioni. Questo aspetto è talmente chiaro che a detenninare le posizioni, le rivendicazioni 5
IL CONTESTO e i comportamenti cui si è assistito nel Palazzo e nelle piazze concorrono evidentemente calcoli e ragioni di ordine diverso, ideologiche e politiche nel senso più angust? e meno limpido del termine. Ma non è questo che qui interessa. E più importante, più difficile e interessante, credo, provare a capire e a vigilare. Una vigilanza intellettuale ma anche pratica, politica nel senso invece ampio e alto del termine, è l'unico compito degno per chi ha a cuore il destino di questo paese e dei suoi abitanti. Uso questo termine antipatico - vigilanza - perché mi sembra che nelle attuali condizioni sociali, culturali ma anche psicologiche, una più o meno profonda crisi economica non possa in nessun modo favorire quel processo di ricostruzione di uno spazio politico democratico che in Italia è urgente dopo la stagione dell'ideologia e della partitocrazia. E anzi sono proprio le qualità e le virtù che stanno alla radice della democrazia le prime vittime designate della crisi - nella sua peculiare forma italiana cui ho accennato, con l'intreccio tra recessione economica, delegittimazione politica e crisi morale. L'espressione di questo pericolo non sta solo nelle violenze razziste, nei successi:leghisti, nelle marce neofasciste. Emerge piuttosto in tutti quégli episodi in cui questo paese - e i gruppi, le classi, le persone che lo costituiscono- sembrano consumare ogni forma di coesione e di comunicazione, ogni elemento di comune identità. Per questo, al di là delle opposte e diversamente condivisibili ragioni, i bulloni contro i sindacati hanno una radice molto prossihia al voto secessionista del profondo nord, e persino le resurrezioni estremiste o neofasciste praticano forme e linguaggi non troppo dissimili. Per l'oggettivo declino dei valori che innervano qualunque dimensione di convivenza civile e animano qualunque democrazia, che si aggiunge alla Manifestazioni di questi giorni (foto Brogi /Germogli/Contrasto). storica carenza, nell'immutabile Dna di questo paese, dei caratteri che immunizzano dal virus dell'egoismo asociale, dei particolarismi, della mancanza di senso civico e di responsabilità collettiva. L'ilare e ipocrita serenità con cui il nostro sottile presidente del consiglio annuncia la catastrofe, la rabbiosa difesa delle rendite e dei privilegi che scatena, la sollevazione delle corporazioni, la fuga- solo minacciata?- dei capitali e la corsa a salvare le proprie inutili "conquiste", la protervia degli evasori e la denuncia rituale dei "traditori", il revival di ideologie vecchissime o pseudonuove sono solo alcune delle maschere di quella commedia che gli italiani recitano anche nei momenti più drammatici. Senza alcuna razionalità e con l'aria di aspettare sempre qualche demagogo che bruscamente metta fine alla sceneggiata. Questo è il pericolo dei nostri tempi difficili. Non tanto, dunque, le scene di dickensiana povertà che qualcuno evoca; anche se la straordinaria tenacia e la maramaldesca viltà (ma forse è solo mancanza di fantasia ...) con cui si colpiscono sempre gli stessi gruppi sociali provocherà prima o poi persino risultati del genere. Non tanto la fine dello Stato sociale che comunque, nella sua grottesca configurazione assistenziale affermatasi nell'Italia democristiana, non può che accompagnare lo sfascio del blocco sociale che ha nutrito. Ma ancora prima la caduta della socialità, la disgregazione del tessuto civile di questo paese con l'esplosione e l'illimitata affermazione dei suoi diversi poteri, vizi e interessi. E la chiusura invece di ogni spazio di riflessione, di comunicazione e trasformazione reale. Bisognerà riparlarne, e intanto fare attenzione a quello che succede in profondità, dietro l'ingannevole superficie dei rituali e degli attori politici. Nel rimescolamento di umori, identità, mentalità che questa crisi accelera si mostrano i tratti del nostro futuro. Comprenderli è necessario, anche per combatterli.
ILCONTESTO Giornalisti .•• Venderesenzavendersi Giorgio Pecorini Accomunati ali' insegna di "Giornalismo anni '90", tra giugno e luglio di quest'anno alcuni fra i più autorevoli protagonisti del mestiere ci hanno detto dalle pagine dell'"Unità", sia pure ali' ingrosso e con omissioni frequenti e cautele assortite, quel che pensano di se stessi, del lavoro proprio e dei colleghi, degli editori e dei lettori. I terni conduttori del discorso son stati due, variati in tutte le tonalità possibili: il gran guasto prodotto dal modello televisivo, cui la carta stampata sarebbe costretta ad adeguarsi, per ragioni di concorrenza cioè di sopravvivenza; e la crescente, in larga misura conseguente, cecità e sordità dinanzi ai problemi e ai mali del paese. Sordità e cecità che finiscono col rendere anche muti giornali e giornalisti: ad autocastrarsi cioè, rinunziando all'arma migliore di cui dispongono: l'inchiesta. I due terni sono stati poi ripresi, rimescolati e rivoltati in un ulteriore dibattito aperto, sempre sull"'Unità" , da Alberto Asor Rosa per lamentare il "silenzio degli intellettuali": "la figura dell'intellettuale come opinion-maker è entrata in una fase di declino", scrive. E denuncia l'invadenza dell' "uni verso multimediale" come causa prima del guasto. L'imputato è insomma da capo quel modello televisivo che coi suoi personaggi sbracati e il suo rozzo linguaggio induce gli intellettuali, o almeno quelli che rifiutano l'omologazione, a "evitare, appartandosi, una concorrenza così temibile" e quindi ad autoemarginarsi, col risultato di ridursi anch'essi ciechi, sordi e muti, come i giornalisti. Il lamento di Asor Rosa ha suscitato nei meglio giornali un tale putiferio di risentimenti, di distinguo, di sottigliezze dialettiche da far perdere il filo e la pazienza a molti. "Tra le altre cose interessanti, questo dibattito dimostra non essere affatto vero che gli intellettuali italiani non dibattano. Dibattono, però, principalmente sugli intellettuali. Non è vero che tacciano: scrivono molto, soprattutto sul silenzio degli intellettuali", sbotta per esempio Michele Serra ("l'Unità" del 7 ottobre). E butta là una domanda: "Non sarà che gli intellettuali, per poter finalmente fare gli intellettuali, dovrebbero interrompere il dibattito sugli intellettuali?". Perché, spiega, quel dibattito "impedisce loro, parlando sempre di se stessi, di parlare del mondo, che è poi ciò che si pretende da un intellettuale". E par di riscoprire l'invito dei ragazzi di Barbiana: "Povero Pierino, mi fai quasi compassione. Il privilegio l'hai pagato caro. Deformato dalla specializzazione, dai libri, da contatti con gente tutta eguale. Perché non vieni via? [...] Smetti di leggere, sparisci. È l'ultima missione della tua classe" (Lettera a una professoressa , p.96). Sul tasto dell'autocastrazione, Giampaolo Pansa ha pestato con molta forza. Nel corso del primo dibattito ("l'Unità" , 9 luglio) constata che i giornalisti in grande maggioranza, pur essendosi accorti del regime di corruzione instaurato nel paese, "volenti o nolenti hanno taciuto": "tanti direttori e tante grandi firme hanno fatto di tutto per restare all'oscuro di quanto avveniva". E presentando il suo nuovo libro, I bugiardi, dichiara: "Se questo sistema dei partiti, nei suoi aspetti più volgari e truci, è durato tanto è perché ha avuto dei complici formidabili nel sistema dei media" ("la Repubblica", 7 ottobre). Diagnosi esatta se soltanto ora che quel sistema dei partiti comincia a sgretolarsi, anche il sistema parallelo dei media comincia ad avere soprassalti di dignità e di indipendenza antilottizzatrice così allarmanti per i lottizzatori da indurre il governo, con un colpo di coda estremo tanto disperato quanto dissennato, a tentare il bavaglio della censura. Ma se questa è la desolante regola (e davvero lo è), perché il bilancio abbia senso bisogna dar conto anche delle rare eccezioni che, confermandola, completano e aggravano il quadro delle responsabilità globali della corporazione. Eccezioni praticamente, ossia politicamente, irrilevanti se non inutili, quanto a capacità ampia di informare e, informando, di incidere e di mobilitare; buone forse soltanto a salvare l'anima individuale del giornalista: magra consolazione per chi, sprovvisto del dono della fede, l'anima, nel senso cristiano-cattolico, non è neppure sicuro di averla. Eppure testimonianze e rivendicazioni irrinunciabili. Pansa denuncia "due comportamenti entrambi pessimi": dei giornali e dei giornalisti:" a) tacere per non disturbare il manovratore, ossia il sistema politico, opposizione compresa; b) parlare, ma soltanto per spacciare balle". Due comportamenti e due responsabilità comunque possibili e imputabili soltanto ai giornalisti in carriera nei giornali che contano. Per il giornalista e per i giornali che contano poco o niente, se rifiutano tanto di spacciar balle quanto di tacere può darsi più frequentemente un terzo comportamento (subìto, non scelto): quello di essere costretti lo stesso al silenzio, e due volte. La prima volta, col pro.gressivo ridursi di spazi, che porta il giornale, strozzato dai meccanismi della distribuzione e della pubblicità, a chiudere e il giornalista a non aver più dove scrivere, a parte i muri e "Linea d'ombra". La seconda volta, col ricatto di neppure poter denunciare le censure patite, se giornale e giornalista, appartenendo alla stessa opposizione di sinistra, si fan scrupolo di non disturbare i "manovratori" per non regalare alla destra argomenti e strumentalizzazioni (vedi la fine de "L'Ora" di Palermo e dei suoi redattori): un esempio di quel ricatto delle "alleanze oggettive" lucidamente analizzate da Leonardo Sciascia (Afutura memoria , p. 27). Sul tasto di un giornalismo cieco e sordo e perciò muto davanti ai guasti del paese, pesta anche Giorgio Bocca, per concludere che "se uno vuol fare questo mestiere correttamente deve rinunciare alla politica". Nel suo pedagogico "Parla come mangi", "Cuore" avrebbe potuto tradurre: "Per fare correttamente questo mestiere bisogna non farlo"; ma è stato preceduto da Ugo lntini, indiscusso portatore dell'allora indiscutibile voce di Craxi, intimando: "Giornalisti, smettete di fare politica" ("l'Unità" , 26 giugno e 3 agosto). Giorgio Bocca s'ostina invece a farlo questo mestiere; e dall' interno di esso, richiamando i due comi di un dilemma fra i quali si barcamena da sempre, avverte: "Nei giornali la gente ha paura e si naviga tra paura e desiderio di stare dentro il sistema". Anche sull'altro tema conduttore del dibattito, cioè il gran guasto recato a giornali e giornalisti dall'allineamento al modello televisivo, çiiorgio Bocca interviene: "La televisione è una pessima cosa. E inutile che il signor Berlusconi continui a dirci che fa bene. Fa malissimo". E lo testimonia riconoscendo di essersi lasciato "far fesso" per "sei o sette anni", assieme ad Arrigo Levi e Guglielmo Zucconi, proprio dal Berlusconi: questione di gusti, di riflessi e di stipendi. Il discorso dell'allineamento-appiattimento sull' "idiota" 7
IL CONTESTO modello televisivo l'aveva impostato il giornalista statunitense Carl Bernstein, uno dei due cronisti dell'inchiesta Watergate, ma nessuno degli autorevoli colleghi italiani intervenuti nel dibattito s'è provato ad approfondirlo, a calarlo nello specifico nostro; e meno di tutti quelli che, lavorando contemporaneamente alla tv e nei giornali, dovrebbero avere forte voce in entrambi i capitoli. Occorrerebbe invece un'analisi attenta del perché della trasposizione acritica, non sai se più pigra, stupida o truffaldina, dello stile televisivo sui giornali; e prima ancora sulla legittimità e opportunità di quello stile, che probabilmente non è neppure davvero televisivo ma che ci si ostina a credere tale; e soprattutto a farlo credere, per inerzia, per tornaconto politico travestito da esigenza economica, per ignoranza, per conformismo. Chi ha certificato'e codificato che sia "televisivo" imporre ragionamenti asfittici; intimidire gli intervistati a colpi di "dica brevissimamente", "spieghi in estrema sintesi", "riassuma in venti secondi", "questo è fuori tema"? Come se intervistati e intervenuti ai dibattiti televisivi fossero tutti incapaci di articolare parole e pensieri; o pericolosi eversori cui impedire sconfinamenti dal territorio assegnato picchettandogli i limiti della ragione e della logica. Come se gli ascoltatori fossero tutti ebeti incapaci di seguire lo svolgimento di un pensiero, di concentrarsi su un problema o un argomento oltre qualche secondo; se la posta in gioco non fosse (ma spessissimo non lo è davvero) quella di dare informazione, di comunicare e stimolare idee e sentimenti bensì di tenere la gente inchiodata, non importa se rimbecillita, purché entri di dritto o di rovescio nel conto auditel, per approssimativo e opinabile che sia; e ingurgiti gli spot più beceri e imbroglioni. Oppure i padroni del vapore editorial-giornalistico vogliono che "televisivo" diventi sinonimo di imbecille e cialtrone? Il sospetto deve averlo avuto anche Giancarlo Bosetti se già nel presentare l'intervista a Giulio Anselmi, vice direttore del "Corriere della sera" , soltanto la quarta di una lunga serie, annotava: "Le simpatie per le accuse rivolte da Cari Bernstein al giornalismo degradato a "idiozia" dal suo inseguimento della televisione diminuiscono via via che ci si avvicina alle responsabilità di direzione dei grandi giornali italiani" ("l'Unità", 29 giugno). Due altri problemi di fondo dell'informazione, parlata e scritta, del nostro paese sono stati invece appena sfiorati nei due dibattiti; e soltanto da alcuni degli intervenuti: quello dell'asservimento (volontario o subìto fa poca differenza) dei giornali e dei giornalisti italiani al potere, politico e/o economico; e quello della sempre più corta memoria storica, sociale e culturale del nostro giornalismo. Sul primo problema, il decano dei giornalisti italiani in carriera, Indro Montanelli, rivendica con orgoglio di non essersi "mai sentito utilizzato dal potere". E a riprova dice: "Se io fossi stato utilizzato dal potere a quest'ora sarei senatore a vita" ("l'Unità", 25 giugno). "Non basta rifiutare un'onorificenza, bisogna non aver fatto nulla per meritarla", telegrafarono, se ricordo bene, i musicisti del Gruppo dei Sei a Debussy apprendendo che il maestro aveva rifiutato la Legion d'onore; e fu l'unica nota stonata nel coro consenziente degli ammiratori. Montanelli non è senatore a vita; ma, a quanto giornali, radio e televisioni hanno scritto e detto, soltanto perché ha rifiutato lui la nomina, non perché non se la sia meritata apparendone degno (e utilizzabile) al potere, che nella persona di Cossiga l'aveva proposta. L'altro problema, della memoria tanto corta da risultare spesso smarrita, richiederebbe un discorso molto disteso e articolato, impossibile qui. Una premessa comunque la si può fare: la memoria dei giornali, e per essi dei giornalisti, si accorcia sino a smarrirsi lungo due strade: l'ignoranza e la pigrizia. Due strade 8 Politico e lv, una fato di Cosima Scovolini (Contrasto). che portano diritto al pressapochismo, quando va bene; e se no alla cialtroneria. È vero quel che sostiene Eugenio Scalfari ("l'Unità" del 2 luglio): il livello culturale medio dei giovani giornalisti italiani è oggi molto più alto di dieci, venti, trent'anni fa. Quasi più nessuno s'affaccia al mestiere con spirito bohèmien e ubbie anarcoromantiche, quasi tutti sono laureati, sanno le lingue, puntano alla specializzazione; e a carriere solide e garantite. Ma altrettanto vero è che il livello medio, culturale ed etico, del giornalismo italiano non ha fatto un salto di qualità proporzionale; che se non è proprio precipitato certo non si è innalzato. La situazione del nostro giornalismo è parallela, in fondo, a quella generale del paese, il cui livello materiale di vita si è molto innalzato dopo la seconda guerra mondiale ma i cui livelli di moralità, di civismo, di consapevolezza, di responsabilità, di solidarietà sono mediamente e proporzionalmente restati com' erano e su certi punti hanno segnato anzi profondi cali, in conseguenza anche della mancata o insufficiente crescita dei livelli di tensione giornalistica. Ma la responsabilità della mancata o insufficiente crescita è davvero tutta e soltanto del "modello tv"? "Un problema dei giornali italiani è che hanno bisogno di vendere di più; "l'Unità" compresa, ma per vendere di più su quali carte si deve contare?" chiede a Enzo Biagi e a se stesso Giancarlo Bosetti (30 giugno). Quali siano le carte giuste, se ci sia un jolly toccasana, non si è saputo. Con evidenza crescente si è invece capito che la carta più sbagliata è certo quella su cui sempre più si punta: arrancare dietro una mitica formula televisiva, già probabilmente errata per la televisione; certo perdente, e sulla lunghezza suicida, per i giornali. Una carta giusta potrebbe essere cercar di dare coi giornali quanto la tv non dà, in parte perché non può, a causa del proprio specifico, linguistico e tecnico (lo specifico reale, non quello inventato); in parte perché non vuole, a difesa del proprio tornaconto, politico o economico. Al giornale scritto, e ai giornalisti che lo scrivono, tocca invece riscoprire un proprio specifico tecnico-informativo-linguistico, che non può non essere il contrario di quello della tv, anche correttamente inteso: umiltà di ricerca e di studio, pazienza e puntiglio di analisi, impegno artigianale antisciatteria. Non se ne può più di scoperte quotidiane dell'acqua calda. Di pseudo inchieste inconcludenti. Di esclusive inesistenti. Di interviste e dibattiti chiusi nel punto in cui stanno per iniziare, cioè appena la sostanza di un problema comincia ad affiorare. Di vicende lasciate a mezzo. Di personaggi inventati. Della vita, con
le sue tragedie e i suoi drammi, ridotta a telenovela. Di storie che partono sempre da zero, come se il mondo cominciasse con loro. Di notizie riferite a spanna. Di refusi sparpagliati a grappolo. Di luoghi comuni e di frasi fatte insulse. Prendiamoci tutti una bella "pausa di riflessione": persuadiamoci che il lettore avrà sempre meno interesse a sbrodolature "a tutto campo" e che, nella "misura in cui" non impareremo a "portare avanti un discorso" diverso, avrà, "dal canto suo", ragione a leggerci sempre meno. Il giornale scritto e i giornalisti che lo scrivono devono poi riscoprire, oltre quello tecnico-informativo-linguistico, uno specifico etico-professionale, il quale non può non essere l'opposto del rampatismo carrieristico dominante nella carta stampata come nelle televisioni. Per un giornalista oggi il problema sta tutto in quella che don Milani chiama "non volontà d1 carriera". Senza presuntuose, snobistiche o masochistiche velleità missionarie e neppure grandi eroismi perché la forza della corporazione tiene a galla persino gli obiettori e gli apostati: il pane e un po' di companatico non glielo fa mancare, se si contentano di stipendi bassi, (sempre più alti comunque di quelli di un maestro o di un metalmeccanico), se non pretendono premi d'ingaggio, superscatti e superliquidazioni. Ma anche senza le impudicizie e i cinismi mutuati dai faccendieri e dai portaborse di quel sottobosco politico-affaristico col quale una fetta sempre più ampia di giornalismo si mescola e si confonde. Il vero problema del giornalista, in conclusione, è l'onestà. Ma, purtroppo, l'onestà ha lo stesso limite del coraggio, che chi non ce l'ha non se lo può dare. Eppure, come per il coraggio, chi non ce l'ha potrebbe venire aiutato a trovarne almeno un poco, se operasse in un contesto mediamente più alto di quello ora imperante, con l'alibi del modello imbecille, cialtrone e falso della tv. Quanto ai giornali, intesi come aziende, il problema di "vendere di più" va inquadrato meglio, stabilendo che cosa "venpere" e definendo in quale misura, a quale scopo, rispetto a quali livelli si cerca quel "di più". Per un giornale italiano, oggi, il problema è forse abbastanza eguale a quello dei partiti italiani: sbaraccare le megastrutture; ridimensionarsi, in coerenza con la propria funzione vera, tutta da recuperare. La soluzione, per un giornale, deve essere quella di cavar più profitti possibili dalla vendita di quante più copie possibili, indipendentemente da quel che c'è scritto dentro; di vendere quanta più pubblicità possibile, indipendentemente dai guasti sociali e culturali che può generare? Per un partito, la soluzione può essere quella di ramazzare quanti più voti possibili, indipendentemente da chi glieli dà e perché, al solo scopo di occupare quante più posizioni di potere possibili, indipendentemente dall'uso che di quel potere gli viene poi consentito o imposto? I giornali devono vendere e cavarne un profitto, certo; anche per essere davvero liberi. Ma vendere informazione su cui appoggiare e far crescere idee, pensiero, ragionamenti: un prodotto non producibile né vendibile con le stesse regole di mercato buone a produrre e vendere automobili, prosciutti o dentifrici; e i cui profitti non sono quindi misurabili sulle stesse logiche. Non se ne può più di tombole, riffe e lotterie; di supplementi vuoti e di regali inutili; di pubblicità infilata negli articoli e di articoli non scritti per il ricatto della pubblicità; della pornografia mascherata da sociologia: i lettori, oltretutto, han dimostrato di non essere così imbecilli come molti direttori li suppongono e quasi tutti gli editori li vorrebbero. Vendere senza vendersi, potrebbe essere la regola specifica per il giornale; e seguendola si potrebbe anche trovare la logica specifica su cui misurare il "di più" necessario e sufficiente, proporzionato al la specifica natura del prodotto. Perché il profitto, per il giornale-giornale, è come la "roba" per il drogato: gli ci vuole, ma un' overdose può riuscirgli altrettanto letale dell'astinenza. ILCONTESTO Tv·Caos Oreste Pivetta Il caos sotto il cielo televisivo sembra enorme. I tempi di Enrico Manca e di Biagio Agnes, quando la Rai stringeva alle corde emalmenava le reti Fininvest, sorretta da un bel competitivo spirito di corpo, sono finiti. Una fine lenta, progressiva, un declino animato dalle discordie di ogni genere, discordie a volte violente, a volte impreviste, attorno ad un corpaccione obeso, vorace, insaziabile, che vale ancora però un tesoro. L'atto di morte non è stato firmato e forse non lo sarà mai. Malgrado la gotta, la cirrosi epatica e il colesterolo, la Rai si è probabilmente conquistata l'immortalità. Dimostra qualche affanno, qualche preoccupazione dopo che hanno deciso di privatizzare l 'Iri; dopo il voto di aprile e dopo quello di Mantova; dopo le settimane spese dalle segreterie dei partiti, che si sono litigate le sedie della commissione di vigilanza; dopo la candidatura di Romano Prodi, commissario al posto dell'accoppiata psi-dc, Pedullà-Pasquarelli; dopo le insistenti proposte di privatizzazione ...Ma sarebbe necessario un Sansone, che spingendo le colonne di vialeMazzini, gridasse "muoio io con tutti i filistei". Ed invece Sansone non c'è e la sensazione è di tanti litiganti e di uno spalleggiarsi a vicenda, convinti che per non affondare tutti insieme qualche cosa bisognerà pur fare, visto che attorno le acque sono agitate e che il regime o il sistema qui e là scricchiolano e non è detto riescano aperpetuarsi in eterno. Anche se molti se lo augurano. Sempre meglio le vecchie abitudini lottizzatrici ad un imprevedibile e forse ingovernabile sconquasso. Ed allora resta difficile capire che cosa ci sia di vero e che cosa ci sia di recitato, per il teatro e per il palcoscenico, che cosa cambierà e se cambierà davvero, quali conseguenze avranno proteste, marce, rivolte e proposte. In fondo siamo solo teleutenti o tuttalpiù lettori. Che cosa dobbiamo capire noi del caso Funari o del caso Beautiful o del caso Vespa? Ad esempio Beautiful. Fininvest compera alcune centinaia di puntate del serial programmato da Raidue. Una distrazione degli uomini Rai al mercato di Cannes. Ma poi scoppia la lite in casa Fininvest, perché in realtà l'acquisto viene giudicato da alcuni non un affare, ma soltanto uno sgarbo alla rete socialista. Altro che concorrenza. Altro che mercato. In termini economici si chiamerebbe oligopolio collusivo. E Funari? Vero o no che lo scambio questa volta è stato solo di cortesie e che il siluro al popolare presentatore che s'è buttato in politica era stato ampiamente concordato da una parte e dall'altra? Altro che Berlusconi censore: la responsabilità è doppia, del duopolio cioè (anche quella di aver esaltato Funari come un martire della libertà, un perseguitato politico, che senza rimorsi può dichiarare: "Ho in mente un progetto di comunicazione globale, sponsor compresi. Utilizzerò tutti i mezzi di comunicazione, compreso il piccione viaggiatore, per parlare di politica e far parlare i politici. Chi pensava di farmi tacere allontanandomi dalle sei reti principali, si è sbagliato"). E Bruno Vespa, direttore del Tguno? Stiamo ai giornali: "sfiduciato" dai suoi redattori (cioè gli hanno tolto la fiducia), perché troppo democristiano, asservito, lottizzato. Lui che aveva dichiarato la Dc il suo azionista di riferimento, resta in sella. Certo non lo abbandoneranno, solo perché una assemblea di redattori ha votato a maggioranza contro la sua gestione. Ma gente come noi, tra i normali che guardano la tv e leggono i giornali, si chiederà come è possibile che non se ne vada lui un po' incazzato un po' avvilito. Invece lo si vede in video inesorabile far la parodia a Chiambretti, senza il dono del grottesco. Intervista 9
IL CONTESTO un altro trombato, Arnaldo Forlani, occupando il telegiornale, passeggiando pensoso, il capo reclinato, la mano che si gratta il mento, mentre il "suo" segretario di riferimento gli snocciola il rosario, con quel suo fare lattemiele da vecchio sporcaccione, che rasenta il codice penale per oltraggio al pudore. Ed allora tutto quel gran vociare, pro e contro, dei mezzibusti Buttiglione, Gruber, Del Noce, Badaloni, Lasorella? Persino Nicoletta Orsomando che ci accompagna dai tempi della tv dei ragazzi. Tutti a protestare: contro ilcodismo, contro la lottizzazione, contro l'abbraccio soffocante dei partiti, persino contro il cattocomunismo eterno fantasma che sopravviverebbe nei cuori dei nuovi nemici di Vespa, per la professionalità, per l'autonomia. Parole sante e sbaglia chi butta tutto sul ridere (Guzzanti) o chi disprezza ("branco di lottizzati", secondo Scalia). Perché gettare alle ortiche le opinioni di quei settantanove che hanno detto "no" a Bruno Vespa (contro sessantasei "sì")? Almeno le parole prendiamole per buone. Ma come interpretarle? Ha ragione Bassolino quando dice: "Vedo in quegli avvenimenti il segno della insostenibilità dell'attuale situazione; il segno che cresce la coscienza di un sistema da disarticolare, per ricostruire qualche cosa di radicalmente nuovo". O ha ragione Emilio Fede, che conosce la Rai dai tempi di Bernabei: "Guardate che corsa: chi non è ancora salito sul carro di Martinazzoli e Segni cerca di farlo adesso, in pochi giorni ...". Probabilmente hanno ragione tutti. Se le parole sono buone, persino ovvie, viene da chiedersi perché non le abbiano pronunciate prima, qualche mese fa, addirittura qualche anno fa, perché questo bisogno di libertà, questo rispetto della informazione, questo senso della professionalità hanno dovuto attendere tanto tempo perché fossero pienamente espressi? Alla Rai ci sembra non sia cambiato nulla. La Rai di Manca e Bagio Agnes non era diversa da quella di Pedullà e di Pasquarelli (se non per questioni di bilancio, perché gli ultimi arrivati sono stati costretti a tagliare spese e a bloccare le assunzioni, arma "letale" di clientelismo e familismo e nepotismo di ogni specie, ma anche motivo di una programmazione contenuta che ha dato fiato alla Fininvest). Solo che la crisi del sistema è andata avanti insieme con l'onda leghista e si è legata alle difficoltà della Dc e del suo segretario Arnaldo Forlani. Così impossibile, a proposito della protesta dei redattori del Tguno, allargatasi presto ad altre aree della redazione, non avvicinare l'un fatto all'altro, non mettere crisi assieme a crisi e non pensare che qualcuno, all'ultimo momento, capisca che è meglio darsi da fare, saltare intanto sul carro del "rinnovamento", vero o solo sbandierato, per poi rincorrere quello di una o dell'altra corrente democristiana, di questo o di quel partito. La diagnosi più severa l'ha fatta Angela Buttiglione, accusata d'aver capeggiato la rivolta anti Vespa: "Il disagio è lo stesso al Tgdue al Tgtre. Solo che qui siamo più liberi e le cose vengono fuori. La verità è che i telegiornali Rai non sono più l'espressione delle tre aree culturali nelle quali grosso modo era diviso il Paese. Sono l'espressione della parte più degradata dei partiti, della lotta tra le fazioni ...Ammettiamo che tu vuoi. fare un servizio. Succede anche che, anziché rivolgerti al direttore, ti rivolgi, e forse sei costretto a farlo, al tuo referente politico, dentro un partito. Lui chiama il direttore e propone il servizio per te". C'è qualcosa di allarmante e di degradante, se le cose sono andate veramente così. Quanto basta comunque per incenerirsi dalla vergogna o per lo meno per andare a nascondersi e, per quanto riguarda noi teleutenti, per non pagare più una briciola di canone (come d'altra parte ha sostenuto un ministro della repubblica, Margherita Boniver). E sono talmente gravi che persino al Bossi torna facile avere ragione: "Io gli uomini di regime li cambierei. E quelli che sono lottizzati li licenzierei". C'è un'altra strada rispetto al 10 licenziamento? La questione, come si dice sempre in Italia, è politic_a.E non c'è niente di più vero, tale è l'intreccio tra sistema dei partiti e sistema dell'informazione (dentro la Raie fuori dalla Rai). Il trambusto nasce da una crisi politica, che potrebbe essere ridotta per comodità o per opportunismo all'equilibrio di regimi rotto dalla comparsa di qualche altro ospite o attore. Non è un caso la difficoltà incontrata nella nomina dei membri della commissione parlamentare di vigilanza (che deve eleggere il consiglio di amministrazione della Rai). Va ridimensionato o no il peso dei tre partiti "classici", Dc, Psi, Pds? Va ridisegnato o no il manuale Cencelli dei lottizzatori? Sono arrivati o no i leghisti? Di questo e non certo di contenuti si parla, non certo di tv spazzatura o di tv culturale, di reti specializzate (lo fa ancora il Bossi). Gli insulti di Sgarbi sono stati appena ricordati, senza che si aprissero dibattiti sulla liceità della rissa televisiva. Non c'è Samarcanda alle porte. Perfino Ferrara sembra essersi calmato. I varietà non fanno rumore e i programmi verità sembrano ormai destinati all'oblio. Ciò che si vede ancora, sul fronte privato e su quello pubblico, è solo un restyling del già visto, felice la Fininvest d'aver raggiunto nell'audience la Rai, costretta dalla gestione piatta e al risparmio di Pasquarelli e dalla burrasca in corso ad occuparsi di tutto tranne che dei programmi. L'unica proposta che potrebbe spezzare la vecchia logica spartitoria (obbligando a rinnovare qualcosa, offrendo una risposta ai mali economici della Rai, colosso da tredicimila dipendenti eda mille miliardi di indebitamento medio, e riaprendo le porte alla competitività) è venuta da Angelo Guglielmi, direttore di Raitre, che ha suggerito la vendita e quindi la privatizzazione di una rete Rai, perché possa nascere davvero un terzo polo tv per "spaccare" il duopolio Rai-Finivest, mostro a due teste e principale causa del degrado e della mediocrità della tv in Italia. Cioè, dice Guglielmi, tre reti Raie tre reti Finivest (più la paytv) sono troppe, occupano tutto il mercato, rastrellano tutta la pubblicità possibile. Eliminiamo una rete per parte e creiamo uno spazio per qualcun altrQ. Ragionamento, visto così, ineccepibile. Ma quale tra i partiti "occupatori" è disposto a mollare qualche cosa? L'Italia ha bisogno di riforme e senza di quelle neppure la Rai si può riformare o autoriformare. Il "terzo polo" riuscirebbe però a produrre televisione migliore? Intanto Guglielmi assolda Celentano e Umberto Eco (La bustina di Minerva, sull'Espresso) sostiene che bisognerebbe farla pagare di più la tv: come il whisky, se ne beve meno se costa tanto. Marco Pannella marcia su Roma con pochi intimi inalberando cartelli che gridano "Libertà, Onestà, Verità" (in concomitanza con un'altra, ahinoi, marcia fascista e con larga presenza di fascisti alla sua di marcia, ma lui dice che alla prova gli stanno bene anche i boia chi molla), rischiando questa volta di fare apparire tutto folklore, snobbato dai più lui che di televisione se ne intende, apparendo a raffica in qualsiasi rete, privata o pubblica. La verità forse l'ha scritta il "Corriere", per mano di Piazzesi: "La Rai, emanazione dei partiti, non può non rinnovarsi contro la volontà dei partiti medesimi. Ma è anche vero il contrario: se va in porto qualcuna delle iniziative che si propongono la trasformazione di questo sistema politico, la Rai ne trarrebbe subito dei grandi vantaggi, anche se non avesse fatto nulla per meritarseli". Insomma. Aspettiamo. Ma non credo sia tutto perduto. Come sempre c'è la pulizia e c'è la retorica della pulizia, che è un fiume in piena che travolge tutto e travolge anche chi nell'oceano lottizzato mantiene rispetto per il'pubblico e per se stesso, senza potere e senza sapere distinguere tra programma e prog_rarnma,tra inchiesta e inchiesta, tra sceneggiato e sceneggiato. E singolare che nessuno, in tanto parlar di riforme e di rinnovamento, abbia indicato l'obiettivo minimo e però discriminante del lavorare onestamente. Come molti di già fanno. E la pratica, fosse solo un poco più diffusa, avrebbe effetti dirompenti.
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