considerata tale nel nostro paese natio e in Occidente. Nel nostro paese natio l'amarezza del verdetto di Jalta era così forte, che nonostante le tradizioni della Grande Emigrazione del secolo scorso prese il sopravvento la convinzione che formulerei così: "Nella sfortuna dobbiamo essere tutti insieme, e tutti insieme dobbiamo ricostruire la nostra patria distrutta; l'esilio è una forma di diserzione". In Occidente la presenza degli esuli dell'Est faceva ricordare, a chi avrebbe preferito di dimenticarlo, l'ignobile mercanteggiamento di Jalta. Dopo tutto è stato il ministro Bevin a invitarci, in foglietti scritti in un polacco appena leggibile, ad abbandonare l'Inghilterra e trasferirci sulla Vistola. Lo stesso invito ci veniva trasmesso dai nostri amici in Polonia, in nome del principio "gli assenti non hanno ragione". Nel 1956 è iniziato il processo, che per strade più o meno tortuose, con alti e bassi, ha condotto infine all'"anno mirabile 1989" e al giorno di oggi. È diventato chiaro, che malgrado le affermazioni di Milosz la storia non è sempre la storia di uno spazio specifico sulla carta geografica. Abbiamo cominciato a incontrare le persone arrivate dalla Polonia, specialmente giovani, per le quali "Kultura" e i suoi libri erano un nutrimento indispensabile, in molti casi una scuola del pensare. È cambiato l'atteggiamento occidentale verso di noi. È risuonata la voce della storia reale e mossa, non più rigida come un collare. Dopo la morte di Stalin I' "impero del male" ha fatto i primi passi verso un abisso inevitabile. Non mi metterò qui a ricostruire gli avvenimenti, tappa dopo tappa. Basta dire, che l'importanza dell'esilio è stata valutata in Polonia come si deve, che "Kultura" è diventata un oggetto di omaggi, che il direttore della rivista fu definito "il vero ministro della cultura dalla fine della guerra alla riconquista dell'indipendenza", che io stesso ho avuto la fortuna di vedere in alcune città polacche centinaia se non migliaia di miei vecchi e nuovi lettori. Uno dei beneficiari di tutti questi cambiamenti fu proprio Milosz, cioè il poeta che ha preso la decisione di rimanere in esilio come una condanna all'ergastolo in un deserto. Prima di passare al secondo punto del mio disaccordo con Milosz nelle opinioni sull'esilio, farò una piccola ma secondo me Da Diario polocco, Formicono rditrice 1982, foto di Giovanni Giovannetti. SAGGI/HERLING importante digressione. Ho fatto cenno all'"impero del male" in marcia verso un abisso inevitabile, sottolineando la parola "inevitabile". Da dove è venuta in me questa certezza della caduta del sistema comunista già nell'anno 1945? In generale si dava dopo la guerra mille anni all'Unione Sovietica, l' intellighenzija polacca per esempio (ne parla Milosz nella sua Mente prigioniera) fu come paralizzata dall'"irreversibilità del nuovo ordine". Come l'Occidente, del resto. Come mai dunque io e i miei amici fummo tanto sicuri che l'opera di Lenin e di Stalin non sarebbe durata in eterno? Quanto a me, i lettori del mio Mondo a parte risponderanno: è una certezza alimentata dallemie esperienze di prigioniero sovietico. Se non mi sbaglio, è stato Tolstoj a consigliare di giustificare lo stato secondo le sue origini. Nella novella di Ivo Andric sulle origini ottomane La corte del diavolo Io si dice in un modo ancora più esplicito. Ma per me la diagnosi della malattia, la mortale malattia dell'"impero del male", veniva da un episodio di cui proprio adesso cade il cinquantesimo anniversario. Liberato dal campo sul Mar Bianco nel 1942, avevo imparato subito che gli ex prigionieri, sprovvisti delle èarte di razionamento per il pane, erano ogni tanto in grado di commuovere qualcuno nella fila e mendicare un pezzo di pane. Nella cittadina Buj vicino Vologda - a circa 300-400 chilometri di distanza dalla linea del fronte nel periodo di una forte avanzata tedesca - mi sono messo vicino alla fila sulla piazzetta, badando più alla fame che non al terribile gelo. A un certo momento è giunto nella piazza, appoggiandosi sulle grucce, un giovane soldato sovietico a cui era stata amputata una gamba. Si era rivolto alla fila con la preghiera di esser ammesso nella panetteria senza dover aspettare, visto che non gli era possibile aspettare il suo turno su una gamba sola. Aveva appeggiato la sua preghiera con una frase patetica: "Compagni, mi son1,> battuto per la patria". Gli risposero con battute offensive e piene di livore, più o meno sul tono "hai fatto male a batterti". Mi ricordo che ambedue, lui e io, ci siamo incamminati verso la stazione ferroviaria, dove si poteva almeno sostituire la fame con un po' di caldo. Certo, la successiva resistenza sovietica coronata dal colpo mortale inflitto all'armata tedesca, dimostra come profondo è stato il cambiamento dopo il primo attacco dell'invasore. In gran misura lo hanno provocato gli stessi nazisti, trattando gli uomini sovietici come Untermenschen, sottouomini, uomini inferiori. Rimane però il fatto, che cinquanta anni fa avevo visto all'improvviso a quale barbara degradazione era stato condotto, dal sistema, l'uomo sovietico considerato "libero"; che cosa si nascondeva nella realtà sovietica dietro la facciata del gergo propagandistico. E sapevo, sapevo senza nessun dubbio, che presto o tardi sarebbe scoppiata nell'URSS una cruenta o incruenta rivolta. Lo storico americano Martin Malia afferma oggi: "Mai finora nella storia il potere così a lungo consolidato fu oggetto di una tale dissacrazione· da parte dei suoi ex-sudditi". Questa "dissacrazione", anche se nascosta per paura nel profondo dei cuori e delle menti, era cominciata molto prima. Ritorno al testo di Milosz: "L'esilio", egli dice, "è una prova della libertà interiore: questa libertà fa orrore". Poi aggiunge: "La libertà dell'esilio è di alta qualità, come la libertà delle vette e della solitudine, che un tempo veniva celebrata da Nietzsche". Quale che sia l'elemento delle "alte vette" nella libertà dell'esilio, mi sembra francamente una miscela di leggerezza e di solennità eccessiva ascriverle la capacità di "far orrore". Molte ombre hanno accom71
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