Foto di Ron Haviv (Agenzia Contrasto). una sorta di rimozione collettiva. Ad alcuni leader sionisti la causa degli ebrei orientali appariva come una minaccia per le sorti del futuro stato ebraico. In ogni caso, quando si conobbero le dimensioni dello sterminio, il fatto che ci fossero gruppi e istituzioni che sapevano fu sentito da tutti - e lo è tuttora - come fonte di angoscia e di scandalo. Ho già detto che non occorre far ricorso a discutibili paragoni con i lager nazisti. Quanto già sappiamo è sufficiente. E la nostra mente è oggi, ahimé, attrezzata per capire senza rimozioni realtà simili ad altre già conosciute in Europa come altrove (la Cambogia fu un bell'esempio di "pulizia", ancorché sociale più che etnica). Quali scuse potremmo noi addurre di fronte ai nostri figli, ai nostri posteri, a noi stessi? Nessun ragionamento più o meno vagamente pacifista può condurre ad assistere immobili a un genocidio. Esiste, certo, una complicazione forte, che è data dallo stato attuale delle relazioni internazionali. Negli anni del bipolarismo, ognuna delle due potenze avrebbe risolto un "problema" che si presentasse all'interno della propria area di controllo. La Cambogia venne abbandonata a se stessa, e poi affidata all'intervento subimperiale vietnamita (con tutte le conseguenze, positive e negative, che ne derivarono), perché si trovava alla periferia degli imperi. Oggi, il vuoto di potere che caratterizza i Balcani, l'Europa orientale e tanta parte dell'ex Unione Sovietica (Asia compresa) fa di questa enorme area un insieme di conflitti etnici, nazionali, religiosi, potenziali o già attuali. Personalmente sono convinto che la Russia cercherà di tornare in tempi abbastanza brevi ad esercitare, su una sua sfera d'influenza, un ruolo di gendarme corrispondente alla sua anticà vocazione imperiale, che la crisi attuale può solo interrompere. Ma nell'attesa di nuovi ass~tti ci troveremo a fronteggiare un'epoca di conflittuaIL CONTESTO lità cronica e permanente, con punte anche di estrema gravità e, infine, con possibili estensioni anche all'Europa occidentale. Tutto questo pone, in prospettiva, il problema di una riorganizzazione delle istituzioni internazionali, capace di prevedere anche una sorta di polizia mondiale che possa intervenire per evitare o arrestare i molti possibili massacri e genocidi da guerra o fame. Tuttavia, sappiamo che la realtà attuale è molto diversa, che l'Onu attraversa una crisi profonda dagli sviluppi incerti. Che cosa dovremo fare nel frattempo? Il problema di eventuali interventi da parte di gruppi di Paesi, per evitare nuove Cambogie o Bosnie o Somalie va visto, mi sembra, in questo quadro. E tra i vari pericoli dai quali occorre guardarsi, c'è anche la paralisi da eccessi di prudenza, di miseria morale o di Realpolitik. Fra l'altro, potrebbe rivelarsi una ben miope Realpolitik quella che sottovalutasse i rischi collettivi o addirittura planetari insiti nei conflitti locali, nei massacri, nell'intolleranza, nell'arroganza di leader che volessero sfruttare spregiudicatamente i vuoti di potere. Naturalmente, i modi concreti, le tecniche, la logistica degli interventi, la limitazione dei rischi (e soprattutto della violenza e delle ulteriori sofferenze per le popolazioni) restano problemi difficili da risolvere: ma non certo insuperabili in presenza di chiarezza strategica, etica e politica. Colpisce che all'interno di ognuno degli schieramenti ideali e politici abbiano giocato un ruolo fondamentale i "tecnici", sottolineando l'esistenza di monti e boschi: come se un deserto e migliaia di pozzi di petrolio non fossero un deterrente almeno altrettanto importante in occasione della crisi irachena. 3. La Bosnia rappresenta anche un interessante esempio di come etica e realismo non facciano necessariamente a pugni: al contrario. Negli stessi giorni di agosto in cui la Bosnia e la Somalia si contendevano tragicamente le prime pagine dei giornali, molte cose accadevano all'interno del mondo islamico. Iraq a parte (si fa 5
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