Linea d'ombra - anno X - n. 75 - ottobre 1992

IL CONTESTO Ma non vedete quei lager! Note sulla Bosnia e sulla non-violenza Gianni Sofri 1. Mi sono chiesto cosa avrebbe detto Gandhi riguardo alla Bosnia. Naturalmente, è sempre difficile, e rischioso, estrapolare qualcosa dal pensiero di chi non c'è più: a maggior ragione quando si tratta, come in questo caso, di un pensiero non chiuso e consolidato, ma in movimento, attento (più di quanto si creda) alla complessità e mutevolezza del reale, e quindi del rapporto fra principi: e creatività. Credo comunque che Gandhi avrebbe consigliato ai musulmani bosniaci (forse anche alle popolazioni serbe e croate di quello sventurato Paese) di opporsi con la non-violenza, fino alla morte, ai propri nemici e massacratori, nell'intento di conquistarne il cuore con lo spettacolo del proprio sacrificio. Gandhi avrebbe cioè detto loro, per quanto è dato supporre, le stesse cose che disse, fra il '38 e il '42, agli ebrei, ai polacchi, ai cecoslovacchi, agli inglesi, quando si trovarono a dover fronteggiare le aggressioni e gli stermini: di Hitler. Per quanto rispetto possa suscitare, ancora oggi, una posizione così radicale, tuttavia la sua evidente inadeguatezza le attirò, allora e in seguito, molte critiche. Paradossalmente, nel caso della Bosnia una strategia di questo tipo sarebbe ancora più inadeguata e irrealizzabile. Nel caso di Hitler c'era la possibilità di individuare un cattivo e dei buoni (o dei meno cattivi), o se si preferisce un aggressore e delle vittime, in una maniera chiaramente definita. Nel caso della Bosnia, questa possibilità è assai più vaga. Nonostante l'evidenza del peso soverchiante (numerico, politico, militare) e della responsabilità primaria dei serbi, quasi tutti gli osservatori concordano nel segnalare la natura intricata e contraddittoria del conflitto. I nemici cui opporsi con la non-violenza sarebbero i serbi per alcuni, i croati per altri, addirittura i musulmani per altri ancora. E, in più, tutti i serbi, tutti i croati, tutti i musulmani? Oppure, come sarebbe assai bello ma poco corrispondente alla realtà, ogni popolazione contro i propri violenti, fanatici, massacratori, militaristi? È comunque un fatto che nulla di questo si è verificato. Certo, conosciamo esempi di solidarietà interetnica, e sappiamo anche che la grande maggioranza della popolazione rappresenta dolorosamente il mondo composito delle vittime. Ma un aspetto inquietante è il consenso che gli odii nazionali, etnici, religiosi ( soprattutto quando si uniscono a concreti interessi economici) riescono oggi a costruire intorno a sé, in questo come in altri casi. Ed è difficile pensare che bande armate numerose e senza scrupoli, spesso appoggiate da settori di popolazione eccitati da odii nazionali, etnici, religiosi (e da promesse di vantaggi), possano recitare il ruolo del "nemico da conquistare con lo spettacolo della propria sofferenza e del proprio sacrificio": il ruolo, insomma, che Gandhi costrinse gli inglesi a recitare in India negli anni Venti-Quaranta. Quale che sia il giudizio che si voglia dare sui colonialisti britannici di quegli anni, è certo che un abisso li separa da nazisti, khmer rossi, ustascia e cetnici. So bene che questo ragionamento viene respinto da alcuni sostenendo che la non-violenza ha un valore morale indipendente dalla sua efficacia immediata e proiettato nel!' educazione futura dell'umanità. Ma è legittimo sacrificare la sorte di milioni di persone sull'altare di questo lungo processo pedagogico? Tuttavia, se vogliamo completare questo ricorso - spero non ozioso - a Gandhi e agli altri padri del pacifismo radicale, c'è un 4 altro aspetto da prendere in esame. Per Tolstoj, il Cristo ha ordinato di non resistere al malvagio e di non accettare la violenza in alcun caso, a meno che si tratti di salvare un bambino minacciato e in pericolo. Quanto a Gandhi, faceva anche lui un'eccezione, per un folle omicida che minacciasse una comunità e che non fosse possibile catturare vivo. Nel '26 scrisse che "colui che non uccide un assassino che sta per uccidere suo figlio (quando non può impedirglielo in altro modo) non ha alcun merito, ma commette peccato". E più volte spiegò che in una società non fatta di esseri perfetti ma "di comuni esseri mortali", in alcune circostanze l'astenersi dalla violenza può non corrispondere ali' ahimsa (la nonviolenza). O, ancora, che l'uso della violenza per una causa giusta è comunque più lodevole di una vile accettazione dell'ingiustizia. Si possono prendere alla lettera queste citazioni su bambini e pazzi sanguinari (e certo colpisce che in Bosnia si sia comunque sparato su bambini). Ma si può anche cercare di coglierne il significato simbolico e metaforico: anche dal punto di vista della non-violenza non c'è nulla di peggio che assistere indifferenti a un massacro. Naturalmente, non si tratta di violentare il pensiero di Gandhi per fame un guerriero, bensì di impedire che la teoria della non-violenza diventi un alibi all'impotenza e all'indifferenza. 2. Si discute se in Bosnia ci siano dei lager. Wiesenthal ci ha richiamati a evitare le confusioni di termini e di concetti che finirebbero per offuscare la tragica, indicibile unicità della Shoah. Nolte ha fatto notare, per converso, che all'inizio i lager na.zisti erano dei "normali" campi di concentramento, e che solo in seguito sarebbero diventati quello che sappiamo. Molti avanzano l'esigenza di saperne di più, il che è sempre buona cosa. È assai probabile che i racconti degli scampati abbiano potuto indurre e diffondere esagerazioni: ma è anche possibile che questo tipo di argomentazione (già usata a suo tempo per i lager nazisti) e la diffidenza che l'accompagna si prestino assai bene a fornire un alibi ali' inazione. È comunque certo che esistono in Bosnia un numero eno_rmedi campi di concentramento, allestiti soprattutto dai serbi (se non altro perché sono i più forti), ma anche dai croati e persino dai musulmani. Questi campi servono alla "pulizia etnica", essendo l'anticamera della deportazione forzata di centinaia di migliaia di innocenti. È altrettanto certo che all'interno di questi campi ci sono, in una misura che ci sfugge, uccisioni, violenze, stupri e comunque condizioni di vita disumane. Naturalmente, non ci sono solo i campi, ma una guerra ormai lunga di tutti contro tutti, spietata e san&uinosa, una guerra di genocidio. Tutto questo non è sufficiente? E noto che dopo la fine della seconda guerra mondiale, in più fasi, vennero messi variamente sotto accusa governi, uomini politici, istituzioni (dalle potenze alleate alla Croce rossa agli stessi leader del sionismo) perché, pur sapendo dei lager nazisti, tacquero e poco o nulla fecero per interromperne l'orrore. Si sono invocate più giustificazioni: per esempio, ti fatto che si stava conducendo una guerra mortale, e che modificarne i piani avrebbe potuto essere pericoloso. Si è detto che le informazioni disponibili, per quanto drammatiche, davano comunque un'immagine edulcorata della realtà. E, ancora, che la mente di un europeo del XX secolo (ma anche Hitler lo era) non era in grado di concepire la realtà dei campi di sterminio, per cui le informazioni più tragiche erano oggetto di

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