SAGGI/ ANDERSON Un tempo ci fu chi era convinto che capitalismo e stato-nazione sarebbero tramontati insieme o che sarebbe sopravvissuto solo il secondo. Oggi ci si chiede se il capitalismo non sia definitivo e lo stato-nazione destinato a divenire solo un fatto nominale. studio di Nairn sul consolidamento della monarchia, The Enchanted Glass, è di gran lunga l'esplorazione monografica più approfondita dei meccanismi d'identificazione nazionale. Il suo punto di forza sta nel fatto che quello di Ukan costituisce un caso a parte - la monarchia come surrogato feticcio invece di un normale attaccamento allo stato-nazione, ancorato dalla giurisdizione mista e dall'arcaismo costituzionale della "Gran Bretagna". Se la costituzione di una identità nazionale implica la proiezione di alcuni aspetti selezionati dell'esperienza storica su un piano emblematico, in questo caso - secondo Nairn - l'eccezionale rigidità dell'investimento simbolico va spiegato, come nel vero e proprio feticismo, con la proibizione del tutto rappresentato dalla parte magica: un "nazionalismo democratico e egualitario". La normalità di quest'ultimo potrebbe essere messa in dubbio - gli aggettivi suonano troppo melliflui per il sostantivo; troppo spesso le ideologie d'unità nazionale sono servite per mascherare spaccature sociali e ineguaglianza. Il nucleo di forza dell'analisi però è fin troppo convincente. La Gran Bretagna non è affatto sfuggita all'ansia moderna dell'identità nazionale, come testimoniano lo spirito di Bruges e le lobby curriculari: l'ha semplicemente inglobata nei suoi congelati schemi mentali. Questo tipo di tensioni fu maggiormente sentito nei tre paesi più potenti dell'Europa occidentale, ossia i grandi stati con un recente passato egemonico. Fu invece decisamente più contenuto nei due paesi immediatamente successivi in graduatoria. L'Italia, con il suo forte scollamento tra vita popolare e istituzioni pubbliche, è stata la culla di un'incomparabile produzione di opere sull'identità nazionale. La puntualizzazione di Pavese - "Lei ama l'Italia?" "No, non l'Italia. Gli italiani" - esprime tuttora un atteggiamento diffuso. A questo riguardo, il testo più significativo è il caustico saggio intitolato L'italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, di Giulio Bollati - uno studio sui progetti di ingegneria culturale del Risorgimento e il loro seguito, visti come sforzi successivi di trasformismo e manipolazione volti a creare il popolo italiano giusto per lo stato italiano. In Spagnadove un tempo Unamuno e Ortega si interrogavano circa l'essenza della nazione: la sua crisi era dovuta a un culto della purezza tendente all'isolamento oppure a una mancanza di élites in grado di supportarla?- oggi regna un radicato pragmatismo. In nessun altro paese benestanti e intellettuali sono altrettanto determinati nel respingere tutte quelle che un tempo erano considerate le caratteristiche nazionali (culto dell'orgoglio, disprezzo per il lavoro, austerità, fanatismo ecc.). Qui, come in Italia, l'integrazione europea rappresenta un moto nazionale in ascesa, non in discesa - un'occasione per elevarsi al di sopra dell'identità nazionale - più che una potenziale minaccia per essa. L'unico primo ministro disposto a lasciare la propria carica per la presidenza della Commissione si trova a Madrid. Al di sotto di questa coppia di stati, nella graduatoria troviamo le nazioni più piccole, che costituiscono gran parte dei membri della Comunità, e un paese in crescita. Questi stati minori aumenteranno l'allarmismo attorno all'identità nazionale, oppure lo sopiranno? In Ach, Europa!, una panoramica di Hans Magnus Enzensberger sul continente europeo scritta a metà degli anni Ottanta, l'occhio si muove circolarmente, dalla Scandinavia alla Polonia, al Portogallo, ignorando in blocco con elegante nonchalance le tre potenze centrali. L'arbitrarietà della selezione ha i suoi limiti, e i Balcani restano fuori dal gioco - come in genere dalla curiosità giornalistica. Per l'editore americano era comunque troppo, e nell'edizione inglese fece tagliare interamente il capitolo più ampio e significativo, forse perché era dedicato al paese più piccolo, la Norvegia, la nazione meglio conosciuta dall'autore. Il reportage di Enzensberger procede per schizzi, aneddoti, boutade, confronti, conclusioni per quesiti e speculazioni. Il suo collage evita accuratamente ogni pretesa di arte ritrattistica. L'identità nazionale viene a malapena menzionata e il carattere nazionale energicamente respinto. "Ci può essere niente di più arido che studiare la 'psicologia nazionale', quell'ammasso ammuffito di stereotipi, pregiudizi e idées reçues?" E, ovviamente, aggiunge: "sgomberare questi tradizionali gnomi dal giardino è impossibile", essi però compaiono qua e là anche fra le sue pagine - come i docili svedesi o i portoghesi tolleranti. Quello che Ach, Europa! offre in verità è ben altro, ossia un caleidoscopio di usi e costumi delicatamente scossi davanti ali' occhio della politica. I cammei irregolari scolpiti da Enzensberger contengono un messaggio preciso: orrore per la tirannia burocratica e riserve nei confronti del risveglio clericale ali' est; sospetti nei confronti dello stato assistenziale, della pianificazione sociale, della produzione di massa, dell'industria pesante, dei partiti tradizionali e dell'estremismo ideologico all'ovest. Il paese in cui questi valori sono più sentiti è la Norvegia, di cui Enzensberger scrive con grande affetto. Un paese al tempo stesso in anticipo e ritardo rispetto ali 'Europa, museo di un popolo e laboratorio del futuro, "monumento all'ostinazione e all'idillio malinconico", il cui ordinamento sociale potrebbe richiamare alla mente le idee di Marx. La Norvegia è anche stata l'unico paese a rifiutare l'ingresso nella Comunità con un plebiscito. Coerente con il proprio disprezzo per tutto ciò che è troppo grande e sistemico, Enzensberger, a differenza di altri uomini di sinistra della sua generazione, non dimostra alcun desiderio di trovare un antidoto alle pretese di Parigi, Londra o Bonn a Strasburgo, né tanto meno a Bruxelles. Nella sua immaginifica conclusione, in cui descrive il continente nel 2006, l'unità europea viene elusa con la stessa destrezza con cui nelle cronache realistiche precedenti aveva eluso l'identità nazionale. Destituiti i tiranni comunisti e ritirate le truppe americane, la Commissione è poco più che cerimoniale, mentre l'Europa - dimenticate le follie dell'integrazione - si crogiola in un cantonalismo a lei congeniale. Un modesto Kleinstaaterei è gradito a tutti, tranne ai recidivi francesi. Le popolazioni d'Europa sono una potenza mondiale ancora non sfruttata che - come le sorti degli Stati Uniti ogni giorno dimostrano- ha sempre fatto apparire dei cretini coloro i quali hanno gioito di questa situazione. La guerra in Medio Oriente ha poi messo alla prova questa affermazione, quando l'autore, trasformatosi per l'occasione in profeta di una minaccia nichilista nell'anima araba, l'ha inaspettatamente illustrata. Diametralmente opposta la risposta politica di Régis Debray, lo scrittore di sinistra le cui visioni teoretiche del futuro delle nazioni e dell'Europa costituiscono l'antitesi più lampante aEnzensberger. Debray si dichiara fermamente contrario all'invio delle truppe alleate, e sottolineando come sia costume da tempo paragonare i dittatori del Medio Oriente a Hitler (come nel caso di Nasser all'epoca di Suez) ricorda in che misura Mitterand 57
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