Linea d'ombra - anno X - n. 75 - ottobre 1992

Ammazione~octale 199J Larivistadeglioperatori sociali C'è ancora chi scommette sulla formazione degli operatori sociali. Noi. Scommettiamo su una formazione che intreccia la riflessione teorica e l'apprendimento dell'esperienza, senza paura di chiedere ai lettori di immergersi negli "Studi" o di lasciarsi prendere dal racconto di una esperienza. Tra Studi, Esperienze, Inserti e Strumenti nel '93 parleremo di intervento di rete, principi di etica sociale, lavoro in equipe, sviluppo di comunità, operatori di strada, centri di aggregazione giovanile, apprendimento esperienziale, ltalie dei servizi, fondamenti e metodo di animazione, animazione del tempo libero. Un servizioperi gruppidi insegnanti chescommettonosullaformazione Dal gennaio '93 ogni mese AS/SCUOLA con 16 pagine monografiche dedicate a: interazione sociale e processi di apprendimento, laboratorio relazionale con gli insegnanti e ricerca delle condizioni minime istituenti, disagio e devianza, la prevenzione oltre le vane parole, quando la classe diventa gruppo, strumenti oltre l'insuccesso scolastico. Contiamo sulla collaborazione dei gruppi di insegnanti che lavorano ~ulla formazione e chiediamo loro di inviarci strumenti di lavoro, richieste e suggerimenti, materiali di formazione. Animazione Sociale è un periodico del Gruppo Abele. Abbonamento1993: L. 50.000,daversare sulCCP n. 00155101,intesta1oa PeriodiciGruppoAbele, viaGiolitti21,10123Torino.Cisipuòabbonaretutto l'anno,ancherichiedendogliarretrati. 32 CONFRONTI diceva Georges Banu - è già sufficiente il rapporto fra titolo e sottotitolo!". Grande paradosso della nostra cultura omogeneizzata planetaria è la discrepanza fra peso e diffusione culturale: né gli ilari seguaci dello spirito dei tempi né i pessimisti incantati dalla tetraggine delle superfici vogliono rendersene conto: la diffusione non è detto che sia peso. Spesso chi vorrebbe parlare di teatro non parla d'altro che (male) di televisione. Non ce n'è bisogno: la storia del teatro-per chi davvero se ne interessa- è storia di chiàrchiari, d'anfratti e disobbedienti. Teatro (singolare e maiuscolo) non ce n'è più: ci sono i teatri. Cruciani osserva gli spazi inventati degli uomini di teatro che sono la storia della scena novecentesca, da Mejerchol' d ad oggi, e per concludere scrive una "Lettera a un archite.t:to" che introduce il cambio di voce delle ultime 30 pagine e finisce così: "Oggi il teatro è lo spazio a parte in cui si esaltano quei valori di interrelazione faticosamente e drammaticamente riconquistati alla negazione quotidiana. Ma ogni progetto di teatro [intende l'edificio] resterà solo 'monumento' o diventerà una di quelle case disabitate di cui resta solo la facciata se non lo si darà come abitazione agli uomini di teatro" (p. I79). Il problema centrale dell'architettura teatrale, insomma, non è d'estetica ma di politica: dal teatro come casa degli spettatori al teatro come casa degli attori. Contro questa semplice eretica verità, da Brindisi a Genova, s'ergono teatri miliardari che non lasceranno traccia. In uno dei necrologi apparsi sui quotidiani, ho letto di Cruciani che "il teatro era la sua vita". Verissimo. Ma mi ha fatto sorridere. Cruciani non è mai stato un patito del teatro. Per esempio: la causa prossima dei suoi studi teatrali fu Ambrogio Donini, storico del Cristianesimo ateo e marxista, che il giorno che doveva fargli I' esame all'università di Roma restò a casa con l'influenza e lasciò a esaminarlo Padre Ilarino da Milano, cappuccino predicatore del Santo Padre, non molto sereno coi marxisti tranquilli e cocciuti. Così Cruciani non poté ottenere più d'un 24. Aveva desiderato laurearsi in storia del Cristianesimo, ma ormai ripiegò su una materia in cui aveva un miglior punto di partenza. Si laureò con un grande letterato, Giovanni Macchia, su Jacques Copeau, regista cattolico. Non importava: era uno degli intransigenti. Quel microcosmo (Copeau, Gide, Rivière, Dullin, Martin du Gard ...) sta alla base dell'impegno civile che Cruciani traduce in studi storici. Quegli autori li ha guardati sempre con un'attenzione da innamorato diffidente, tenendoli a rispettosa distanza come dei maestri. A loro è tornato periodicamente. Gli aneddoti non dicono mai nulla d'essenziale. •È vero che Cruciani non ha avuto una naturale inclinazione al teatro. Ma ne ha sentito la vocazione. L'ha saputa ascoltare soprattutto quand'era beffarda e contrastava con la tranquillità delle ortodossie in cui lui avrebbe goduto a credere. Quando dico "beffarda" penso soprattutto a Eugenio Barba. Più tardi impiegò il concetto di "eresia" per spiegare il teatro moderno che fa storia. La sua specialità è una scrittura scoscesa che sembra non saper mai il teatro cosa sia e continuamente s'interroga sui suoi contorni. In superficie non è polemica e pugnace. E neppure elegante. È, per così dire, a scoppio ritardato. A forza di ripetere idee puntute, di spaccare il capello, di piantar grane metodologiche in regioni storiche che sembravano poter stare in pace, a forza di concentrare l'attenzione su aspetti apparentemente laterali della storia, Cruciani ha rinnovato gli studi sul teatro rinascimentale (sulla sua statura nella storiografia teatrale internazionale si veda l'articolo di Claudio Meldolesi su "L'Unità" del 2-9-1992) ed ha creato una scuola per gli studi sul teatro novecentesco. Cruciani studiai! teatro in maniera difficile. Appartiene a quella piccola schiera che s'oppone all'indulgenza ed autoindulgenza che costituiscono la miseria degli studi teatrali. Lo spazio del teatro risolve questo modo difficile di studiare in limpidezza e chiarezza didattica. Scrittura scoscesa vuol dire che contiene in sé l'energia delle certezze che si rompono e continuamente tentano di ricomporsi. Senza questa lotta contro un bisogno profondo d'ortodossia il dubbio sarebbe inerte. Date le circostanze vorrei chiudere questa recensione con un atto affettuoso. Si dice che dei grandi attori spariti siano le caricature a rivelare spesso il segreto del gesto (o del Gestus). Cosi è anche degli scrittori e degli studiosi. A volte è nelle loro pagine meno buone che si nasconde una confessione importante. Credo che le pagine più brutte che Fabrizio abbia scritto siano l'"orazione" che conclude il bel libro su Registi Pedagoghi e comunità teatrali nel XX secolo. È un calco, nientemeno, dei primi brani del Manifesto di Marx ed Engels, dove al posto di "comunismo" Fabrizio ha messo i teatri di chi non fa il cosiddetto "vero teatro" e al posto di "borghesia" ha messo Regia. La prosa qui è bruttina, il gusto è dubbio. Ma la testa che sta dietro è bellissima. Credo che queste pagine mal riuscite ed eccessive a Cruciani piacessero, secondo il principio per cui "ogne scarrafone è bello a' mamma soia": perché erano davvero generate dalla vocazione, ne erano l'impronta indifesa. Ecco il gioco di trasparenze che fornisce i sottotesti ai rigorosi testi storici di Cruciani, ecco che cosa egli chiedeva segretamente al teatro, nientedimeno. D'autotrascendersi. Una necessità su cui bisognerebbe esser tutti d'accordo. Ma in nome di che? Su questo si litigherà. L'amicizia è un modo di litigare, una lotta fiorita, come pare che i giapponesi chiamino l'amore (e fors'anche le arti marziali). Anche la cultura dovrebbe esserlo. Oggi si tende a conservarla in pace. Questa pace è il contrario della libertà ... Ricordo il finale di À nous la liberté di René Clair, girato negli stessi mesi in cui Copeau rievocava al Vieux-Colombier la nascita di quel teatro. Nel '24, quando Copeau chiuse il teatro, sui tetti del Vieux-Colombier René Clair aveva girato alcuni brani di Entracte, la partita a scacchi di Duchamp ...Nella sequenza finale di À nous la liberté, quando i due amici si liberano dalle rispettive prigioni e son di nuovo sulla strada, e quando cantano quella graziosa canzoncina ("Mon vieux copain, la vie est belle \ quand on connait la liberté.\ N'attendons plus, partons vers elle. \ À nous, à nous la liberté") il segno dell'amicizia è la miniatura d'una rissa, con pugni manate e calci nel sedere.

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