Linea d'ombra - anno X - n. 75 - ottobre 1992

Gong Li nel film di Zhong Yimou Lostoriadi OinJu. più il passato, ma l'oggi della Cina. A rompere gli schemi è un modo di far fare cinema, meno costretto nei formalismi tonali, scenografici, recitativi, nei rigorismi accademici. Camera nascosta, documento rubato o ricostruito come se fosse "vissuto", attori non professionisti, curiosità "etnografica": un"'esposizione" alla vita che si traduce in immagini non gridate ma coinvolgenti una Cina di montagna e di città, con le sue facce, i suoi mercati, le sue contraddizioni, i suoi imbrogli, cui Zhang Yimou aggiunge una visione delle campagne come cuore della Cina in una versione che dovrebbe unire valori solidali e diritti individuali. Oltre l'idillio, ci viene mostrata come naturale qualcosa di più: una struttura sociale tutta di tipo militare, dal capo villaggio ai tribunali via via gestiti da poliziotti e da ufficiali dell'esercito, una struttura sociale così naturale nella sua abnormità, così ingiusta sia quando tenta di mettere tutto a tacere con un compromesso, sia quando fa esemplarmente giustizia contro il piccolo funzionario locale. Magistralmente "leggero" è Otar Ioseliani nel suo cinico pessimismo, nel suo discorso di perdita nella vita di cose che la rendono vivibile e godibile. La chasse aux papillons, la caccia ingorda alle cose belle che finisce per distruggerle, può apparire "sgangherata", ma in realtà ha la libertà di racconto, il gusto della casualità degli ultimi Bui\uel francesi. Assieme a Bui\uel, con cui Ioseliani ha in comune l'attenzione estranea ai fenomeni del mondo attuale (gli arancioni, i terroristi, i disastri ascoltati con il walkman ai giornali radio, ecc.), fissati come bizzarria, come ecçentricità, come assurdo, l'altro nume tutelare del film sembra essere non Vigo, apertamente citato con I'Atalante che scivola sulle tran28 CONFRONTI quille acque del fiume, ma il Renoir maturo, "bon viveur" polemico contro il moderno, in nome di altri valori, di natura, cultura, stile di vita, rapporti umani. Con una maturità di visione, più risentita, più aspra del solito, Ioseliani sembra voler andare al fondo delle cose e concludere su un giudizio di non-senso del mondo. La meravigliosa naturalezza con cui, nella prima parte, descrive rituali, abitudini, tradizioni del paese e del castello, in cui entrano a pieno titolo le buffe manie dei singoli a comporre un altro dei suoi stralunati piccoli gruppi, fitti di figure aeree, come disegnate, nasconde la malinconica coscienza di ciò che non può più essere, in ogni caso non può più durare. Un mondo di ombre, di eleganti ombre che risalgono sino alla giovinezza zarista, evocate tra sogno e realtà, in quel dormiveglia che precede la morte, ma capaci di lasciare nella realtà segni lievi come una sigaretta dal lungo filtro, come una biglia da biliardo, ma tangibili. Film volutamente non così orizzontale, aperto, inafferrabile come i suoi precedenti, lascia via via emergere una sua "costruzione", un suo discorso sulla rapacità umana che ha vinto, che non è solo dei mercanti e dei notai, dei nuovi ricchi russi e giapponesi, ma contamina anche i personaggi più simpatici come la vecchia cugina o la nuora nera che non esitano a sottrarre all'eredità un po' di argenteria. Di pari passo, sembra via via perdere il suo sereno distacco per approdare, da ultimo, dopo la stupenda cerimonia dei funerali, del banchetto funebre, della lettura del testamento che riunisce un bel nido di vipere, a un greve moralismo, feroce sui giovani eredi russi, stupidamente avidi di denaro e piaceri, e beffardo sui giapponesi che scimmiottano gli usi europei e ricoprono l'antico castello di ideogrammi, difeso da porte a vetri come ogni sede di holding. Un trasformismo che è una sconfitta definitiva. Un'ultima unghiata Ioseliani la mette a segno, però, con quello strano, enigmatico sguardo che la vecchia contessa, venuta dall'Urss e costretta a una nuova miseria a Parigi dalla rampante nipote "prototipo della yuppie elstiniana", riserva a un corteo di protesta operaia che riempie le strade. Un segno di possibile incontro tra antichi nemici oltre la volgarità e l'affarismo del presente? Una strana paura sembra prendere gli autori più sensibili, quella di non essere stati chiari, di non essersi fatti capire. Come se fosse difficile oggi trovare una fine adeguata se non nell'irrilevanza dei dettagli o nel pessimismo più nero. Come per una profonda insicurezza. Anche Martone, alla fine di Morte di un matematico napoletano, sente la necessità di una lunga scena di funerale, rotta in tanti dialoghi, tanti personaggi, tante allusioni a vicende personali e politiche di un'epoca lontana, tra il basso dei becchini e l'alto degli intellettuali e dei funzionari, che dovrebbe moltiplicare le prospettive ed è invece grevemente didascalica, bozzettistica (quelle frasi famose, quelle citazioni, quei frammenti di verità possono reggere soltanto se, non realisticamente "illuminate", diventano un fatto stilistico; altrimenti restano vere e proprie scene di "genere"), incomprensibile per chi già non sa. Tutto in realtà era stato detto con rigore di scrittura ed efficacia di discorso. La dialettica tra un "senso corale di città, da un lato, e il tema della solitudine, dall'altro", in primo luogo. L'estraneità di Caccioppoli a un ambiente e a una città è già definitiva all'inizio del film, all'inizio di questa settimana di passione laica prima del suicidio. Le lunghe camminate in una Napoli vuota, non folkloristica, "nobile", sono la figura più ricorrente del personaggio; la macchina da presa gli sta addosso in maniera avvolgente, inquietante, mai ad altezza di realtà; il suo sguardo febbrile spesso si arresta su uno spazio solitario, su un muro, su una parete. Le varie figure, l'ex moglie, il fratello, sono come insorgenze di un passato privato, lontano. La memoria, o il sogno come preferisce chiamarla Martone, funziona nel film da vero strumento di registrazione della Storia, perché "lavora nel presente", è una memoria vitale. Così- e questo è l'elemento forte del film - la chiave crepuscolare, con appena un'ombra di maledettismo, di autocompiaciuta insofferenza da "genio" (cui Carlo Cecchi dà la necessaria carica di aristocratica antipatia), diventa un terribile detector della miseria politica e umana di un mondo e di. un'epoca, della inconsapevole ristrettezza delle cose per cui si sbattono, degli ideali per cui lottano tante persone, tanta gente anche simpatica e fedele, cui dà una rara verità una schiera di notevoli e poco noti attori napoletani di teatro. A far da "trait-d'union" tra gli autori giovani più interessanti, da Martone a Segre

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