Linea d'ombra - anno X - n. 75 - ottobre 1992

Italiania Venezia Gianni Volpi Alla Mostra, come nel cinema di ogni giorno, ha dominato la normalità ( di storie, di stili, di approcci, di visioni). Una assoluta maggioranza di film che si "possono" vedere e che sono esattamente come si pensava. È, del resto, nella logica di un festival necessariamente di seconda fila (che debba competere con Montreal e Deauville è già qualificante) e refrattario (per paralisi burocratica, per tradizione, diremmo: per statuto) a "inventarsi" l'evento, come fa Cannes, maestra negli artifici perché ha a disposizione l'intero mercato. Le stesse innovazioni (per Venezia: altrove sono pratica corrente da un decennio), quali la "Finestra sulle immagini" che, con i suoi attraversamenti di generi, formati, durate, mezzi tecnici, con le sue commistioni impreviste, resta un'idea vitale al di là del valore dei singoli materiali, si scontrano con un'impostazione di fondo datata e improduttiva: Venezia come terra franca per gli Autori, secondo un taglio ideologico mai verificato nella realtà di una condizione e secondo una lettura della "politique des auteurs", a trent'anni di distanza da quando fu proposta dai "Cahiers", rovesciata in contrapposizione al cinema "commerciale" e non come scoperta di veri autori oltre le costrizioni dei generi e degli studios. Che differenza corre tra lo psico-thriller Raising Caino il noir sexy Basic lnstinct, se non che il film di De Palma è non meno brutto di quello di Verhoeven, senza averne la cialtronesca vitalità e l'impatto sul pubblico? Così applicata, quella nozione sembra un comodo alibi per delle mediocrità, e non una difesa della diversità, di un altro modo di essere nel cinema. Oggi è più autore Jonathan Demme o il Fowley di Americani, numeri di mattatori, testo a sprazzi duro e brillante, a gioco lungo flaccido, di David Mamet, o Pupi Avati con la paccottiglia su cui ha costruito, in America, Fratelli e sorelle? Fuori dagli alibi, si finisce poi per premiare la normalità, purché esotica, lontana come la Cina, o colta, come nel caso di Sautet (preferito a un Tavernierambiguo, vitale, scomodo nel suo punto di vista radicale: la delinq4enza legata al traffico della droga vista fenomenologicamente dal basso, con l'occhio del flic comune, uno sguardo forse populista ma reale), o incomprensibile. Come è per Hotel de lux, il film rumeno di Dan Pita, tronfio esempio di greve e retorica surrealtà mitteleuropea, che tanto è piaciuto al presidente del la Giuria, Dennis Hopper, forse perché non aveva mai visto un film dell'Est "ancien régime" burocratico-stalinista, "ancien style" allegorico. CONFRONTI Non può più essere soltanto questione di "qualità" (alla Orlando), ma di dove siamo noi in qesta storia. Il cinema è "qualcosa che appartiene alla morale, all'etica", scriveva prima di morire un grande critico come Serge Daney; si tratta della possibilità etica "du geste qui donne à voir". Purché lo si sappia intendere, è questione di ritrovare i segni di quella "facoltà così umana -e anche politica - che è l'immaginazione", i segni (spesso, non di più) di vere dissonanze, di ricerche eccentriche non per capriccio ma per necessità, di sondaggi in territori raramente battuti, in zone di assoluta autonomia personale. Prendiamo La storia di Qin Ju di Zhang Yimou. I suoi motivi di interesse stanno ai margini più che non nel nucleo centrale, una esile vicenda di lite contadina che ha per protagonista una bella e goffa Gong Li nelle vesti di una sorta di Michael Kohlhaas al femminile e che vuole assumere un senso di nuova, possibile giustizia, tenuto ben all'interno delle regole recentemente volute dal potere. Senza malignità, lo si può interpretare come un passo indietro per poter tornare a lavorare in Cina dopo le pesanti censure a Yu Dou e a Lanterne rosse ; ma anche sembra essere come il pretesto per darci a vedere non Sopra: Carlo Cecchi in Morte di un matematico napoletano di Mario Mortone. Sotto: Carlo Colnaghi e Barbara Valmorini in Manilo PalomaBianco di Daniele Segre !foto di Elena Bosio).

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