Linea d'ombra - anno X - n. 75 - ottobre 1992

basterebbe l'enorme successo attribuito inTunisia a film d'autore come L 'homme de cendres e Les sabots en or di Nouri Bouzid e Halfaouine di Ferid Boughedir, che hanno battutto ogni record di incassi nel Paese. I film del nord del continente si differenziano profondamente nelle scelte stilistiche e nel ritmo narrativo, confermando il carattere riduttivo del "comun denominatore" di cui si parlava all'inizio. Si può tuttavia affermare che i registi maghrebini, come quelli dell'Africa nera, sono in genere passati da un cinema "politico" ad un cinema "culturale". Ciò che effettivamente sta cambiando è l'abbandono del discorso ideologico e della pura volontà didattica a favore della freschezza e della poesia, pur senza rinunciare ali' impegno. E tale formula non può che rivelarsi vincente per questa cinematografia che è stata felicemente definita "a metà del guado". Lavecchiasignora africana Su "Jene" di Djibril Diop Mambety Tra i tanti modi di raccontarci l'Africa, quello scelto da Djibril Diop Mambety, regista senegalese, è tra i più originali. L'aveva già dimostrato con il suo primo lungometraggio, Touki Bouki (Il cammino delle iene), uscito nel '73, presentato a Cannes ne "La quinzaine des réalizateurs", giudicato "in anticipo sui tempi", dissacrante, stupendo per la bellezza formale al di fuori delle regole, ricco di intensa liricità, divenuto ben presto "cult movie". Un film "spiazzante", a cominciare dall'immagine dell'affiche, con la torre Eiffel a testa in giù. Intervallato da tre mediometraggi, anche questi girati ali' insegna della libertà più totale e di una costante, divertita ironia, il secondo lungometraggio si è fatto attendere a lungo, quasi vent'anni, per comparire infine in competizione ufficiale al Festival di Cannes '92 ed essere poi proposto al recente Festival di Locarno. E anche questa volta il regista è riuscito a sorprenderci, con un film meno folle del previsto, anche se altrettanto originale, che ci racconta l'Africa partendo dalla ... Svizzera. lene (questo il titolo del film, che conferma quanto valore simbolico Djibril attribuisca al1'oscena voracità di questi animali) è infatti tratto da una notissima pièce teatrale (La visita della vecchia signora) di Friedrich Dlirrenrnatt, grande scrittore svizzero recentemente scomparso e amico carissimo del regista senegalese. Der besuch der Alten Damen aveva già ispirato un'opera cinematografica degli anni Sessanta, La vendetta della signora di Bemhardt Wicki, con Ingrid Bergman e Anthony Quinn. Questa storia, Djibril la coltivava da tempo: era partita da un quartiere del porto di Dakar dove aveva conosciuto una grande prostituta che l'aveva affascinato, Linguère Ramatou (in lingua wolof "Linguère" significa "non c'è regina più grande di lei", mentre Ramatou è un uccello rosso appartenente alla mitologia egizia del1' epoca faraonica ed incarna l'anima dei morti). L'"Angelo Azzurro" senegalese il venerdì sera 26 CONFRONTI offriva champagne ai marinai nelle bettole del porto, dopo aver lavorato durante la settimana nei quartieri alti della città. Non è stato difficile sovrapporre questo personaggio fatale alla "vecchia signora" del grande scrittore svizzero: così negli anni ha preso corpo lene (Hyenes), fiaba spietata intessuta di ironia. Colobane è un villaggio perduto nella polvere rossa del Sahel, fantasma addormentato di una città un tempo ricca, divenuta ormai uno di quei luoghi in cui nulla può accadere. Finché, un giorno, viene annunciato l'arrivo di Linguère Ramatou. Terribile è, nell'aspetto sdegnoso, colei che ragazzina era stata scacciata con un bimbo nel grembo e che ritorna, dopo trent'anni, ricchissima, "più ricca della banca mondiale". Costretta a prostituirsi, ha conosciuto il mondo e il meccanismo delle sue leggi, ha fatto fortuna, ma non ha dimenticato l'antica ferita. Tutta la popolazione, speranzosa, si raduna per attenderla ali' entrata della città, primo fra tutti Dramaan Drameh, il suo antico amante e primo amore. La vecchia, drappeggiata nei suoi veli, lo guarda con un sorriso stanco e gli mostra le sue protesi d'oro. Il peso degli anni e delle prove subite non lascia spazioper l'intenerimento e le sue parole risuonano gelide come una condanna irrevocabile: "Ho lasciato Colobane nella stagione delle piogge, con tutta la popolazione che rideva della mia gravidanza avanzata. E ora sonoqui, madre di nessuno. Sono ioche propongo l'affare e detto le mie condizioni. Il mondo ha fatto di me una puttana, io voglio fare del mondo un bordello. La gente per bene è quella che paga e io pago. Colobane per un assassinio, la ricchezza per un cadavere". La vittima richiesta è proprio Dramaan Drameh, che aveva costretto due testimoni a giurare il falso per rinnegare la sua paternità e poter sposare la donna più ricca del paese. Ora Ramatou farà a Colobane una donazione di 100 miliardi in cambio della vita di colui che l'ha sedotta, tradita e abbandonata. E se dapprima i notabili del luogo reagiscono con sdegno alla proposta, proclamando che mai si macchierebbero di assassinio, ben presto la tentazione di una vita più facile si fa strada nell'animo di tutti e i tanto conclamati valori morali di dissolvono di fronte alla sete di benessere. Con raffinata crudeltà, la vecc;hia dama sparge su Colobane i seducenti prodotti del consumismo e in brevissimo tempo scatta il meccanismo del sacrificio. Scortata da una impenetrabile, diligente giapponesina munita di telefono cellulare, ironico simbolo di unprogresso incombente, Ramatou assiste alla capitolazione di ogni principio e alla progressi va presa di coscienza del suo ex-amante il quale, di fronte alla sconfortante ipocrisia dei suoi concittadini, acquista di colpo una dignità immensa. Quando, perdute ormai le speranze, egli cerca di ottenere almeno la sua pietà, lei gli promette, fissando il mare, che in futuro staranno per sempre insieme, là, nell'isola dove gli dei sono benigni. Ma prima lo aspetta la grande prova e per questo gli ordina: "Và, muori e ritorna". Dramaan, scortato dagli uomini in muta fila solenne, si dirige al cimitero degli elefanti, un anfiteatro naturale immenso che bene si adatta al crescendo da tragedia classica. Tutti si stringono minacciosi intorno a lui, in una trasparente metafora del branco di iene intorno al cadavere, e quando si allontanano non resta a terra che una giacca sgualcita.Nell'ultima scena un enorme bulldozer rivolta una sterminata distesa di terra rozza in mezzo alla quale si erge, unico superstite, un baobab, simbolo dell'Africa che, nonostante tutto, vive, mentre sullo sfondo svettano incombenti i grattacieli di Dakar. L'ironia del regista è meno feroce di quella dello scrittore e sembra stemperarsi nella malinconia, forse perché in lene entra in gioco una diversa variante: l'endemica povertà degli africani che li rende passivamente disponibili a qualunque forma di dono e vittime predestinate del consumismo del nord del mondo che non perdona. . La felice trasposizione che, con immagini sontuose e costumi di straordinaria inventiva, Mambety è riuscito ad operare senza alcuna forzatura e prescindendo da qualsiasi compiacimento folcloristico, intessendo pathos ed ironia, sta a testimoniare ancora una volta l'universalità dell'opera d'arte. Uno scena di Jene di Djibril Diop Mombety.

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