Linea d'ombra - anno X - n. 75 - ottobre 1992

CONFRONTI Il cinemaafricanoha fatto trent'anni Annamaria Gallone Si continua a chiamarlo "giovane" anche se ormai ha superato i trent'anni e il comun denominatore di "Cinema africano" va sempre più stretto alla produzione cinematografica di un Paese estremamente vasto dal punto di vista geografico e riccamente variegato dal punto di vista culturale. A testimoniarlo basterebbero i film puntualmente selezionati e spesso premiati ai grandi festival internazionali, ormai reperibili in Italia nel circuito culturale (cosa, questa, impensabile fino a qualche anno fa) che timidamente si stanno affacciando anche nelle sale commerciali e sugli schermi televisivi. Sempre meno privilegio per i soli "addetti ai lavori". In Occidente questa cinematografia sta progressivamente perdendo il carattere iniziale di oggetto di curiosità folcloristica ed esplorazione etnografica e si sta affermando a fianco di tutte le altre, anche se grandissimi rimangono i problemi a suo carico. "Testa senza corpo" l'ha definita impietosamente, ma efficacemente Tahar Cheria, uomo di cultura tunisino, fondatore nel 1968 delle Giornate Cinematografiche di Cartagine (JCC) e l'artefice, durante un decennio, della politica cinematografica dell'Agenzia di cooperazione culturale e tecnica (ACCT). La sua definizione riassume icasticamente la situazione di una cinematografia che esiste grazie alla forza di volontà, a volte quasi eroica degli autori (giustamente il senegalese Djibril Diop Mambety ha parlato di "sacerdozio"), ma che non dispone di infrastrutture industriali e di un'organizzazione giuridica ed economica. Il bisogno fondamentale dei popoli africani di accedere alla propria immagine corre così il rischio di restare senza risposta se i film, girati con acrobatiche difficoltà, non arrivano poi sui loro schermi, inondati dalle peggiori produzioni del Nord del mondo. Rachid Benhadj, regista algerino, racconta la sua incredulità quando, durante le riprese del suo ultimo film, invitato nella tenda di un beduino in mezzo alle dune del deserto, ha visto tutta la famiglia intorno ad un piccolo televisore a batteria guardare una puntata di Dallas ... E identico è sicuramente lo stupore di chiunque di noi si aggiri in una capitale africana e scopra che le sale cinematografiche, da quelle "europeizzate" con pretese di lusso a quelle "a cielo aperto" dei quartieri più poveri, programmano invariabilmente il peggio della produzione mondiale (karaté, kung-fù, melò indiani ...), tutto, fuorché cinema africano. Eppure, pervicacemente, gli autori continuano a girare le loro storie. Nel marzo '91, durante l'ultima edizione del FESPACO, il Festival Panafricano di Cinema che si svolge ogni due anni in Burkina Faso, oltre la metà dei trenta lungometraggi in gara erano opere prime e hanno evidenziato la presenza di una nuova generazione di cineasti africani, dimostrando chiaraDjibril Diop Mombety. mente laprogressi va differenziazione delle scelte tematiche e stilistiche. Se tuttavia vogliamo enucleare delle "tendenze di base", basta prendere in considerazione le ultime opere di coloro che sono considerati i decani del cinema africano: il senegalese Sembène Ousmane e il maliano Souleymane Cissé. Il primo rappresenta una testimonianza significativa del cinema africano nato intorno alla fine degli anni Sessanta, estremamente impegnato politicamente e socialmente, in lotta per la conquista di una vera indipendenza ed autogestione del continente. Il suo Camp de Thiaroye, premiato al Festival di Venezia '88, frutto di una cooperazione "Sud-Sud" (Senegal, Tunisia e Algeria), girato da una troupe interamente africana e post-prodotto nei laboratori Satpec in Tunisia, confermava la sua teoria secondo la quale l'ideale per l'Africa è di produrre i propri film con i soli mezzi a sua disposizione. L'ultima sua opera, Guelvaar, selezionata al recente Festival di Venezia, se nel contenuto mantiene tutto il rigore dell'impegno ideologico, con personaggi senza introspezioni e debolezze che non appartengano all'intera comunità, per montare la produzione è dovuto ricorrere stavolta a interventi stranieri (Francia e Italia), avvicinandosi così alle scelte "logistiche" di Souleymane Cissé, il cui film Yeleen è stato prodotto con capitali europei (Ministero della Cooperazione francese e televisioni di vari paesi occidentali), girato da tecnici soprattutto francesi, post-prodotto inte- . ramente in Francia. Anche la tematica del film sembra andare oltre il percorso un po' obbligatorio della cinematografia del Continente Nero e cerca un linguaggio stilistico di carattere universale, sfumando l'Africa in una atmosfera atemporale di rarefatta bellezza resa attraverso una sofisticata perfezione tecnica. Più vicino all'africanità "pura" di Sembène il maliano Cheick Oumar Cissoko, profondamente impegnato sul piano politico e deciso a fare del cinema uno strumento di "libertà". Egli "pensa" i suoi film soprattutto per il pubblico africano (ricorrendo ad un sostegno economico dell'Europa solo per sopperire alla mancanza di fondi) e privilegia le tematiche che possono servire ad infrangere tabù e sottomissioni accettate da sempre, senza tuttavia rinunciare a divertire le masse con un ruspante umorismo popolare. Nella stessa direzione di Cissé si muove invece Idrissa Ouedraogo, del Burkina Faso, "enfant terrible" del cinema africano, finora il più apprezzato sugli schermi internazionali, il quale sembra aver trovato in una serie di bellissime "fiabe morali" la formula narrativa vincente, che propone al Nord del mondo il villaggio del Sud come microcosmo ricco di tradizioni culturali, ma insieme teatro di sentimenti ed emozioni universali. ldrissa sembra aver capito l'urgenza di una produzione televisiva africana, finora praticamente inesistente, mentre molti sono gli autori che si accaniscono a puntare unicamente al lungometraggio 35mm. fiction, penalizzandosi così ad anni di lunga attesa nella ricerca dei mezzi necessari. Non a caso il 90% della produzione africana è costituito di opere prime. Ferid Boughedir, regista, critico cinematografico e docente di cinema all'unìversità di Tunisi, ha saputo analizzare con grande acutezza i vantaggi e i rischi di una cinematografia privata del suo mercato interno di diffusione e quasi totalmente dipendente dai festival per accedere ad una distribuzione redditizia al di fuori del continente. "Uno dei più grandi- vantaggi consiste nel condannare i cineasti africani (dolce condanna) a fare del 'cinema d'autore', di buona qualità artistica, anziché dei sottoprodotti commerciali, così numerosi nel cinema degli altri Paesi del Terzo mondo il cui mercato interno garantisce sufficiente redditività ai loro film. Per fortuna tutta la cooperazione europea, con il cinema africano, si muove a sostegno di questo cinema di qualità. Uno dei rischi di questa situazione è che alcuni cineasti finiscano con il modellare le loro opere sui gusti dei cinefili occidentali e non si rivolgano più, prima di tutto, al loro pubblico naturale, che dovrebbe essere quello africano". Pubblico che mostra invece un interesse enorme per i film del proprio Paese, quando riesce a vederli. A dimostrarlo, basterebbero gli spettatori di Ouagadougou in occasione del FESPACO. In lunghe file pazienti, le mamme con i bambini legati alla schiena, a volte sotto un sole implacabile, attendono di entrare nelle dodici sale che proiettano i film girati negli ultimi due anni in tutto il continente. Tutto questo, grazie ad una politica diversa da quella della maggior parte degli altri stati africani che purtroppo, dopo l'indipendenza, ha relegato la cultura agli ultimi posti delle preoccupazioni di bilancio, senza capire che la cultura non è il fine, ma il mezzo dello sviluppo. E, sempre a proposito della prorompente adesione popolare alla produzione indigena, 25

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