IL CONTESTO è dubbio. Per esempio, due mesi fa, qui a New York si è svolta un'importante cena di beneficenza, a cui è intervenuto Henry Kissinger. Durante il suo discorso -e la situazione era assolutamente ufficiale - Kissinger ha detto testualmente: "Non si può credere a niente di quello che dice un arabo". Se avesse detto: "Non si può credere a niente di quello che dice un 'ebreo' o 'un nero'", non gliela avrebbero lasciata passare. Ma in questo caso, lo hanno applaudito. Erano d'accordo. lo lo chiamo razzismo che gode dell'approvazione generale: a proposito degli arabi si può dire di tutto, come è successo durante la guerra del Golfo. Li si può chiamare 'carne da cammello', 'teste imbottite', 'wogs' (modo violento e offensivo di definire l'appartenenza geografica di una l?ersona: terrone, cafone), a-rabbie (feccia, marmaglia), terroristi. E questa la forma più nuova di razzismo e gode di un consenso generalizzato. Ci sono ovviamente altre forme di razzismo che stanno ricomparendo, ad esempio l'antisemitismo, e c'è quell'altro razzismo, costante e secondo me mai cambiato, che ha come bersaglio gli afro-americani. Continua come sempre. In questo paese, dal punto di vista culturale e intellettuale, l'atmosfera è assai tesa. Esiste una specie di consenso diffuso secondo cui la gente di colore e le cosiddette razze emergenti, neri, latino-americani ecc - è da ricordare, tra l'altro, che numericamente è sempre più difficile considerarle minoranze - si sono spinte un po' troppo in là nell'affermazione dei loro diritti, che hanno esagerato a forza di imporre il loro punto di vista e a invadere le accademie americane come oggetto di studio da rivalutare. Stiamo assistendo a quello che definirei uno spostamento di interesse: ci si sta concentrando sulle civiltà occidentali classiche e sull'idea che facciamo parte della cultura giudaico-cristiana, una cultura fondamentalmente bianca. L'intera lotta in favore del multiculturalismo sta svanendo senza lasciare tracce. Vi è il senso diffuso che l'America sia una società coerente. La si rappresenta come una società coerente, costretta dalla storia a lanciarsi in imprese avventurose nel mondo extra-americano, come nel caso della guerra del Golfo. Non bisogna dimenticare che proprio questa guerra ha avuto una parte importantissima nel disegnare l'attuale ruolo degli Stati Uniti. Cosa si può prevedere per i prossimi due o tre anni? In che direzione andrà la politica estera statunitense? La grossa ironia o il paradosso della nostra politica estera è che gli Stati Uniti sono diventati una potenza economica in declino. Non ci sono soldi! D'altro canto, l'ambizione statunitense di essere i poliziotti del mondo non accenna a affievolirsi. Ultimamente questo fatto ha preso una forma nuova e sottile. Vale a dire che usiamo le Nazioni Unite come un'estensione della nostra politica estera. Il 17 agosto le Nazioni Unite hanno discusso su un nuovo documento che ne dovrà rappresentare le linee politiche per i mesi a venire. Si tratta di un documento che parla della pace e di come mantenerla nel mondo. Beh, è un documento essenzialmente occidentale e sponsorizzato soprattutto dagli Stati Uniti. L'idea centrale è che gli Usa useranno la loro forza economica, politica e soprattutto militare per influenzare le Nazioni Unite e spingerle a prendere posizione. Esattamente come durante la guerra del Golfo. Il nuovo modello è questo. Credo che rappresenti un precedente molto pericoloso, perché è diretto sostanzialmente contro il Terzo mondo. Voglio dire che gli Stati Uniti sono stati molto prudenti quando si è trattato di prendere posizione sulla questione jugoslava. In quel caso il loro intervento si è ridotto al minimo. Ma quando si tratta di Terzo mondo, Africa, America Latina! Pensiamo all'invasione di Panama, di Grenada, dell'Iraq. Ne vedremo molte altre dello stesso tipo, perché, su questo piano, credo che tra repubblicani e democratici esista un'intesa assoluta. E perché gli Stati Uniti 10 sono sostanzialmente isolati dal resto del mondo. In questo paese si può crescere sapendo ben poco di quello che sta fuori dai confini nazionali. Qualche mese fa si è svolto un concorso scolastico interstatale a cui partecipavano studenti di quindici/sedici anni. Alla domanda "dove si trova Toronto?", I' 89% ha risposto "in Italia", per via della o finale. La comprensione geografica del resto del mondo da noi è molto ridotta. La gente oggi è completamente eterodiretta. I miei figli, ad esempio, sono cresciuti con la televisione. La televisione dà un'immagine molto distorta del mondo. Di conseguenza si ha una popolazione di fatto facilmente manipolabile. Non acculturata, non dotata di senso critico come in passato. Sono quindi molto spaventato per il futuro, perché la storia degli Stati Uniti è la storia di una missione imperiale nei confronti del resto del mondo, la stessa del Capitano Achab inMoby Dick. È nostro compito occuparcene. E non c'è bambino, indipendentemente dal suo retroterra razziale, etnico, culturale, linguistico, che, una volta cresciuto in America, non sia convinto che NOI siamo il popolo che combatte per la democrazia in tutto il mondo, che NOI siamo il migliore dei popoli, che NOI siamo il numero uno. C'è un libro, uscito un paio di anni fa, scritto da un pòlitologo di Harvard, Joseph Nyatt e intitolato Bound to Lead. L'autore, subito dopo la guerra del Golfo, ne ha prodotta una seconda versione, in cui affermava che anche l'Iraq ammetteva che noi avessimo una missione mondiale. Credo che andremo avanti così, anche se molte cose impediscono alla nostra attuale politica estera di avere il successo che aveva negli anni Cinquanta, Sessanta, Settanta. Ci sono segnali di opposizione politica interna? No, e questo è il problema. Il grosso problema è che l'opposizione politica in questo paese, in parte a causa delle enormi dimensioni del suo territorio, è sostanzialmente dispersa. Prendiamo laguerra contro l'Iraq.All'epoca non c'è stataalcuna opposizione intellettuale a cui fare riferimento. C'erano pochi individui, Chomsky, io, cinque o sei altri che giravano il paese intervenendo pubblicamente contro il conflitto, ma in generale l'opposizione è esistita nei piccoli centri, non si è creata opposizione a livello nazionale. Credo si sia trattato in parte di un fatto generazionale: l'opposizione cresciuta contro la guerra del Vietnam era morta. Eravamo di fronte a un nuovo nemico, a un nuovo mondo. Il mondo islamico e arabo, come ho già detto, non è considerato qualcosa per cui la gente dovrebbe combattere o a favore del quale schierarsi in modo da evitare che gli venga dichiarata guerra. Ecco dunque che ci si è trovati di fronte a un'opposizione dispersa, frammentata, disorganizzata. E soprattutto io penso che il problema principale sia stato che in questo paese la cosiddetta sinistra è diventata accademica. E gli accademici parlano solo tra loro. Se, tanto per fare un esempio, si prende in mano il libro di un marxista o di un teorico della sinistra, un testo che tratti di politica, di cultura o di storia, c'è rischi odi non capirlo. Hanno scelto di usare un linguaggio ermetico, che ha come destinatario il ristretto circolo degli altri intellettuali. Quindi l'idea stessa di un pubblico nazionale è morta. Naturalmente in questo i media hanno avuto un ruolo straordinario, come si è visto durante la guerra del Golfo. Questa guerra è stata un momento di svolta importante, perché ha prodotto una collaborazione piena tra media e governo e un vuoto assoluto di dibattito. Si può dire che tutta la gente comparsa sugli schermi in quei mesi, tutti i vari intervistati, fossero sostanzialmente in favore della politica del governo. Inoltre, a différenza di quanto era successo in tutte le altre guerre, in questo caso era scomparsa la figura del reporter di prima linea, del testimone oculare. Diciamo che si era creata una situazione di reale unanimità. Eppure bastava andare a vedere cosa ci fosse dietro. Parlando con Chomsky e con i pochi che all'epoca andavano in giro per il paese prendendo posizione contro la guerra, ho verificato che la risposta della gente c'era. Il
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==