l'affiliazione politica aveva poca importanza, mentre ciò che realmente contava era la presa di posizione morale, e la ricerca di rigore intellettuale assunse la stessa urgenza di quella del pane quotidiano". Parlava, Chiaromonte, dell'Italia sotto il fascismo, del rigore e dell'isolamento degli antifascisti (etra le poche letture che in ore come queste possono aiutare ci sono queste pagine, ripubblicate dal Mulino nel volume Il tarlo della coscienza). Sembrano parole lontane da un paese lontano. Ma davvero tanto lontano, davvero tanto diverso? Parlava, Chiaromonte, di un paese dove."dal punto di vista etico" era richiesta "all'individuo e alla comunità una resa incondizionata" e dove dunque era "impossibile considerare la morale come una questione privata". Parlava di una "questione morale" che stava specificamente nello "scegliere ciò che ciascuno sarebbe dovuto essere, indipendentemente dalla possibilità di successo che aveva". Servirebbero oggi parole nuove, idee nuove. Ma forse in mancanza di quelle che nessuno sa o può inventare si può cominciare da idee o parole come queste, vecchie, certo, ma provenienti da un passato poco praticato e poco sperimentato, rapidamente rimosso e schiacciato dalle grandi, infauste culture nazionali. Parole che dovrebbero finire di apparire solo nobili e cominciare a diventare utili. Perché comunque non si può ormai prescindere dalla consapevolezza di quel rapporto tra indi".iduo e società, tra etica e politica, tra rigore intellettuale e moralità. Abbia ragione la disperazione o la speranza, il pessimismo apocalittico che ci suggerisce la cronaca da Milano a Palermo o il volenteroso, disperato e oggi impotente ottimismo degli onesti. Ai funerali degli agenti della scarta di Borsellino, Palermo 21-7-92 (fata di Eligio Pooni/Cantrasta) IL CONTESTO Tra uccideree morire. Per un intervento nonviolento nell'ex Jugoslavia Gianfranco Bettin Chiunque sia stato, dalla fine dello scorso anno, nelle regioni tormentate dell'ex Jugoslavia e abbia visitato i campi dei profughi provenienti soprattutto dalla Bosnia-Erzegovina, ha potuto ascoltare infiniti racconti di orrore e di morte. Nei campi ci sono quasi solo bambini, vecchi e donne, cioè coloro che da sempre rappresentano, nella vicenda di tutte le guerre, la popolazione inerme. Quella letteralmente "senza armi", che non combatte perché non può, ma anche perché delle armi ha un'antica esperienza distruttiva e vi scorge ciò che soprattutto le armi sono: strumenti di morte e annientamento, sempre. Chiunque segua i reportage giornalistici da Sarajevo o dalle altre zone devastate dalla guerra può rendersi conto, anche da casa, di quale sia ormai il punto di degenerazione cui si è giunti. E non può che andare così, in una storia che è sempre più storia di rotture fratricide e di esasperazione di ogni conflitto e di ogni differenza. In cui la prospettiva del dialogo è nei fatti ritenuta da tutte le parti in causa come impraticabile e, anzi, non è neppure considerata. Ogni tregua è effimera, quando non si riduce a una truffa, a un beffardo trucco per meglio aggredire e colpire. È in questo quadro di impotenza della ragione pacifica e della ragione tout court che può nascere la tentazione e, a volte, la vera e propria invocazione di una superiore forza delle armi da contrapporre, per stabilire una tregua piegando gli irriducibili, alla brutale e interminabile faida attuale. Visitando più volte diverse regioni dell'ex Jugoslavia ho sentito ovunque, non solo dai profughi, levarsi questa richiesta. Anche da persone e gruppi per vocazione pacifici e pacifisti, resi disperati dalla catena di sangue e dalla apparente assenza di ogni altra possibile soluzione. La comunità internazionale è stata in questa vicenda ingiusta e ignava insieme. Ha teso, soprattutto, a riconoscere i fatti compiuti. Sia quando si trattava di esitare di fronte alla proclamazione d'indipendenza e sovranità dei nuovi stati che si formavano, per timore di rompere lo status quo precedente, sia quando si trattava -e si tratta -di far recedere gli eserciti, almeno quello serbo e quello croato, dalle regioni che abusivamente e con la prepotenza delle armi stavano e stanno occupando. La comunità internazionale si è misurata soprattutto con la ragion di Stato e con le ragioni delle armi, e a esse si è piegata. La sola alternativa che si è lasciata, oggi, è di opporvi, a propria volta, una ragione armata ancora più agguerrita, cioè di riproporre nei Balcani, nei modi relativi, il modello "Desert Storm". Quanto sia preoccupante questa ipotesi e quanto sia comunque ostica da praticare nell'intricato contesto geografico, etnico e politico dell'ex Jugoslavia è cosa che va ribadita, nell'interesse della pace e di una possibile ripresa del dialogo tra le parti, che difficilmente potrebbe ricominciare all'indomani di una soluzione "irakena". Ma l'esitazione di chi teme un degenerare del conflitto, a seguito di una possibile "tempesta sui Balcani", e addirittura un suo deflagrare ulteriore, che potrebbe infiammare il cuore stesso d'Europa, non può motivare l'ignavia di fronte alla strage degli innocenti che si sta compiendo. C'è dunque una via diversa tra l'ignavia o peggio il cinico disinteresse verso una guerra "di serie B" (né petrolio né velleità imperiali da difendere) e il ricorso, ancora una volta, alla ragione del più forte e del più armato? Cioè, in quest'ultimo caso, alla guerra come rimedio alla guerra? Più volte, in quest'anno di crisi e di conflitto sanguinoso nell'ex 5
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