IL CONTESTO Icone italiane Palermo, Milano e dintorni Marino Sinibaldi Il giudice Borsellino (foto di Francesco Pedone/Contrasto). Non so se l'estate ormai alle spalle di chi legge queste righe ha lasciato che sfumassero le immagini dei giorni di luglio a Palermo. Ma non credo. Perché le strade squarciate e terrorizzat~ e poi le scene, tragiche e grottesche, nella cattedrale, contengono la più raggelante e precisa rappresentazione dello stato morale di questo paese, dei sentimenti oggi in campo, dello scarto e dell' intreccio tra politica e società. Anche nella loro forma per così dire "stilistica", quei volti e quel tumulto, lo smarrimento e la rabbia, le parole vuote che si sono udite e i gesti violenti e per certi versi insensati cui si è assistito sono un'autentica icona di questi nostri anni tragici e banali. E sia chiaro, icone e simboli nazionali italiani, per nulla solo siciliani o meridionali. Sotto gli occhi abbiamo perciò avuto la sintesi più inequivoca ed efficace di quanto sta accadendo in Italia, dove il residuo tessuto sociale di un paese esile e contraddittorio, le residue minime forme di relazione, di identificazione, di convivenza si disfano, davanti alla ferocia della barbarie, alla pervasività della corruzione, all'impotenza delle risposte e delle alternative. La sconfitta della parte sana di questo paese (e riconosco di usare una categoria approssimativa e ambigua) comunque sta nel fatto di non trovare più amici affidabili e forti e di scoprire invece nemici molto più potenti e crudeli di quanto forse credeva o amava credere. Non sto pensando solo alla mafia, naturalmente, ma piuttosto a quell'insieme di fenomeni che, ancora per mancanza di parole più adeguate, siamo soliti qualificare come disgregazione morale. Nell'Italia che anche chi si era fatto miope per convenienza personale, per debolezza intellettuale o per calcolo politico ha in questi mesi dovuto riconoscere come il paese dell'immoralità della politica e dell'amoralità della società, in questa Italia la mafia è solo il frammento più spettacolare e sanguinoso dello sfascio di una società. Dietro, alle spalle anche della sua sempre più cruenta invincibilità, c'è quel lento, esasperante, inarrestabile s~lacciamento di ogni speranza e fiducia reciproca, di ogni nconoscimento e identità, di ciò insomma che pur in modo pe_renn~me?tei?certo e provvisorio teneva insieme questo paese e 1 su01 ab1tant1.So bene che questa immagine di cittadini un tempo associati da qualche forma di identità, di solidarietà, di 4 riconoscimento collettivo è probabilmente falsa e sicuramente ingenua. Ma c'è stato anche nella storia recente di questo paese un tempo in cui si poteva sperare, o almeno si potevano riconoscere i nemici e anche gli amici, in cui si potèva puntare su qualcosa, su qualche forma, su qualche idea e qualche collettività. Senza deprecare o rimpiangere nulla, questo va ricordato se non altro perc~é aiuta a capire lo sbalzo, il trauma, lo strappo che oggi parahzza o confonde la coscienza civile degli italiani. Questa mi sembra, guardando in queste ore le terribili immagini di Palermo, la vera dimensione della sconfitta, quella da cui non si p~ò uscire. _Perchénel volto odioso e terreo del potere a~serraghato nella cattedrale come in quello ferito e disperato che ciecamente lo assedia è segnato il perimetro della nostra attuale impotenza. Se provo a mettere ordine nei miei sentimenti e a ragionare, dopo l'immediata identificazione con chi chiede di cacciare i politici da quel funerale, in quella moltitudine ben intenzionata e "giusta" vedo solo il frutto di una lacerazione e nulla che dia speranza; solo la sterilità vana e in certo senso consolatoria della disperazione. Quella gente (sicuramente la ~os:ra gente) non vede che non ci sono nemmeno più, i politici; m tlvù ne ho scorti pochissimi, intorno a quelle bare. La resa, in realtà, è già assoluta, il disastro è più totale di quanto non creda la folla irata e generosa. Se ne parlo, se cerco di limitare o razionalizzare l'ovvia e istantanea simpatia, è perché lì sta l'altra faccia della scon:Pittae lo specchio impietoso dell'impotenza. La stessa debolezza e gli stessi errori che caratterizzano tutti i conflitti e le esasperazioni da cui questo paese apparentemente immobile è invece convulsamente attraversato; e da cui non sembra nascere nulla di buono. Lo specchio riflette solo lo scomposto agitarsi di tante ferite e tante disperazioni, e .conferma la superficiale - o meglio, la superiore - immobilità. (Quella per cui, ormai credo lo abbiamo capito tutti, la mafia stabilizza e non destabilizza.) Cosa fare? Forse nulla, forse l'onestà e una radicalità intellettuale all'altezza di questo disastro imporrebbero di ammettere che ?on c'è nulla da fare, che le ferite sono troppo profonde e gravi, e non resta che chinare il capo e cercare, nel proprio "particulare", una qualche individuale salvezza. O forse, sotto la p~ess~onedelle emozioni di queste ore, è ancora più forte il rischio d1framtendere, e dunque mi sbaglio. Forse nei volti rabbiosi di Palermo, negli appelli rituali e nelle generiche denunce, come nel voto populista di aprile o nell'onesto disgusto espresso in poche, mute lenzuola bianche, c'è almeno il seme di una reazione almeno la fragile e lontana possibilità di un futuro diverso d~ quello che incombe. Davvero non lo so. Ma mentre intellettuali scellerati ripetono, come una litania resa ridicola dagli eventi, l'allarme per ogni possibile identificazione tra politica e morale -come se fosse lo "stato etico" il pericolo che minaccia l'Italia come se in questo paese già troppi, mafiosi e antimafiosi, no~ pensassero, giudicassero, agissero m~hiavellicamente-, se c'è una speranza e una possibilità d'impegno non solo individuale, sta in qualcosa di diverso e lontano dalla politica, dalle sue attuali forme e valori. Nominare cos'è non è facile, non èmai stato facile. Cinquanta anni fa, in un'altra situazione storica, davvero in tutt'altr_a situazione, Nicola Chiaromonte scriveva: "In questo stato d1 cose, per coloro che decidevano di non arrendersi,
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