Linea d'ombra - anno X - n. 74 - settembre 1992

SAGGI/NIANIY Per il momento, comunque, vorrei prendere in esame circostanze meno repressive e meno nefaste. Mi riferisco non tanto a una censura autoritaria quanto piuttosto a un implacabile consenso in cui i temi ammessi siano trattati in modo variamente ingegnoso e l'evidente centro d'attenzione, tanto per il pubblico che per l'artista, sia costituito dalla felicità o dall'esattezza dell'esecuzione. Non è corretto ritenere che siffatte condizioni producano sempre arte di second'ordine. Per esempio, George Herbert si sottomise, come poeta, al quadro di riferimento di una religione ufficiale e di una fede; ma, nel suo caso, accadde che la sua personalità fosse conformata in modo tale che gli riuscì di convivere in accordo con la dottrina e di scrivere una poesia che era intellettualmente pura, emotivamente vigorosa e assolutamente autentica. Un intelletto libero, indomito, si misurava con remore e aspettative che erano e basilari e casuali. Quel che vale per George Herbert vale anche per il T.S. Eliot dei Quattro quartetti. Come faceva già notare Stead, si tratta di un poeta molto diverso da quello che aveva scritto La terra desolata, un poeta che abbandona la fiducia iniziale nel processo dell' immaginazione per abbracciare le ragioni della razionalità e del pensiero. L'Eliot della Terra desolata riproduceva nella sua poesia un senso di smarrimento e di sonnambulismo, un flusso di brillanti scene espressionistiche che ricordano quelle in cui si imbattono Dante e Virgilio nella Divina Commedia. Nell'Inferno, pelleElizabethBishop. 40 grino e guida procedono tra ombre prigioniere di destini di cui sono diventate gli archetipi, proprio al modo in cui procede la poesia di Eliot, sulla misteriosa piena della propria creatività. Ma nei Quartetti Eliot è rinato, passando dalle fantasticherie del simbolismo ai più severi vincoli della philosophia e della tradizione religiosa. La lingua ispirata, spontanea, essenzialmente lirica, è stata sostituita come governatore da un organo che funziona più come un afflitto grand seigneur, in modo meditabondo, autorevole, e tuttavia almeno un po' ansiosamente consapevole della vitalità e spensieratezza perdute. Questa vitalità e spensieratezza della poesia lirica, il suo gusto per la propria creatività, la sua tensione gioiosa, vengono sempre minacciati quando essa avverte che la propria gratificazione suona come un affronto in un mondo preoccupato delle proprie imperfezioni, dolori, catastrofi. Quale diritto ha la poesia all' isolamento? Non dovrebbe, forse, dominare la propria gioia e dare una morale al suo canto? Dovrebbe, la poesia, come ha detto Austin Clarke in un altro contesto, togliere il battaglio dalla campana della rima? Giungere a un tale punto di abnegazione come quello che sembra prospettare Zbigniew Herbert nella poesia Un bastone? C'è chi in capo coltiva giardini sentieri portano dai capelli a città bianche e assolate scrivere gli è facile chiude gli occhi subito una frotta di immagini gli scorre dalla fronte la mia immaginazione è una tavola mio unico strumento un bastone colpisco la tavola mi risponde sì -sì no -no ad altri la verde campana dell'albero la campana azzurra dell'acqua io ho un bastone da giardini vulnerabili colpisco la tavola e mi ispira l'arida poesia del moralista sì -sì no -no I versi di Herbert esigono evidentemente che la poesia abbandoni il suo edonismo e la sua scorrevolezza e divenga una monaca della lingua, riducend? i suoi boccoli lussureggianti a stoppie di stimoli morali e etici. E pure evidente il desiderio di detronizzare la lingua a causa della sua altera condiscendenza e nominare

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