fare ciò che deve essere"). La desolazione, l'angoscia di non riuscire a superare la difficile prova, le crisi nervose e l'innegabile mania di persecuzione che segna i suoi legami familiari, contraddistinguono il suo isolamento nei primi anni torinesi e la diffidenza nei confronti del mondo esterno. "Mi sono fatto orso, di dentro e di fuori. È stato per me come se gli altri uomini non esistessero, ed io fossi un lupo nel suo covo", scriveva più tardi alla sorella. Per Gramsci dunque l'aridità non è solamente, come per Gobetti, una misura di rifiuto dei toni retorici, ma una forma di distacco dalle emozioni esterne. Questa difesa cade di fronte a Giulia, conosciuta nel settembre del '22 in un sanatorio moscovita. "Scopro in me, che credevo completamente arido e disseccato - le scrive alcuni mesi dopo averla conosciuta-, una piccola sorgente (piccola, piccola ...) di melanconia e di chiaro di luna con contorno di azzurro". In una vita condizionata da responsabilità politiche crescenti, l'amore per Giulia rappresenta l'unico momento di abbandono. Non è possibile naturalmente tentare di ricostruire la storia d'amore tra Antonio e Giulia sulla base di queste sole lettere: la mancanza di documentazione sul periodo dell'idillio (quando entrambi risiedevano a Mosca) è un ostacolo insormontabile per la nostra conoscenza. La storia epistolare, come si osservava prima, è contrassegnata dalla distanza e dall 'incerta prospettiva di una vita in comune, in un'Europa dominata dall'avanzata dei regimi reazionari. Al di là dello sfondo politico si avverte tuttavia una distanza più profonda, che consiste nella difficoltà di comunicazione tra Antonio e Giulia. Nelle lettere rimangono impresse alcune sensazioni estreme e il residuo di quella "metafisica dell'impazienza" cui Gramsci faceva ricorso nei momenti di scoraggi_amento. Ma si profilano in Giulia i primi segnali di una crisi nervosa che la spingerà al silenzio. La distanza dunque non è solo geografica, come si avverte in occasione della nascita del loro primo figlio. Sono i giorni della crisi Matteotti; Giulia è a Mosca, Gramsci, che è stato eletto deputato, partecipa a Roma alle agitazioni del comitato delle opposizioni, in una fase che sembra preludere ali' agonia del fascismo. Le molte lettere che egli scrive a Giulia, talvolta senza risposta, sono intervallate da quelle a Vincenzo Bianco, per apprendere da lui i motivi del suo silenzio ("perché ella a me non scrive e non vuol scrivere su quest'argomento. E io non so cosa fare"). La notizia della nascita di Delio gli giunge così con notevole ritardo, suscitandogli un profondo senso di colpa paterno ("io non riesco forse a immaginarmi padre", scriverà in seguito). Ma la nascita del figlio è anche l'ultimo episodio della sua vita familiare (il secondo figlio non arriverà neanche a conoscerlo) e perciò assume una funzione rivelatrice: "Per mescrive a Giulia - Delio è stato davvero una stella filante di S. Lorenzo e anche il nostro amore non ha avuto un po' lo stesso carattere?". Con l'inizio della detenzione la famiglia si separa definitivamente dalla sua traiettoria esistenziale. CONFRONTI l'ebreo intero e l'ebreo dimezzato. Unastoria europea narratada AnnaFoa Alberto Cavaglion Disegno di Emanuele luzzati. Ricordate Pratofungo e Col Gerbido, i due paesini immaginari dell'entroterra ligure, ·che Italo Calvino ritrae ne Il Visconte dimezzato? L'uno ospitava i lebbrosi, l'altro la comunità di Esaù e di Ezechiele, refrattaria alla conversione, tenacemente attaccata ai suoi riti, calvinisti, o più probabilmente (perché non immemori della scuola da Calvino frequentata a Sanremo) valdesi. Pratofungo e Col Gerbido, due entità fittizie dove emergono i tratti di una memoria non caricaturale della "dura cervice" di chi mostra attaccamento alle Sacre Scritture, vengono alla mente leggendo in modo particolare la prima parte del librodiAnna FoaEbrei inEuropa. Dalla peste nera all'emancipazione (Bari, Laterza, 1992, 380 pp., Lit. 48.000). L'autrice dimostra infatti che l'inizio della vera storia dell'ebraismo europeo coincide con il passaggio della Peste Nera ( 1348): gli effetti furono devastanti, comunità secolari furono cancellate e decimate, e la geografia della presenza ebraica in Europa mutò sensibilmente. La connessione tra ebrei e lebbrosi era destinata ad avere una sua legittimità non solo per la calunnia del contagio, della cosiddetta "peste manufatta" che alimentò gli stereotipi antiebraici venendo ad affiancarsi ai più arcaici riti accusatori della profanazione dell'ostia e delle uccisioni rituali di bambini cristiani. Non potè che derivare, da questa situazione altamente tragica, una frantumazione dell'idea stessa di identità ebraica, dimidiata psicologicamente, almeno quanto· da un punto di vista corporeo dimidiato era il Visconte calviniano. E ne conseguì inoltre che le fisionomie stesse, economiche e sociali, delle comunità incominciarono ad assumere il curioso aspetto della duplicità. I luoghi d'asilo diventarono un po' Pratofungo e allo stesso tempo un po' Col Gerbido: l'unione di due diverse categorie di emarginazione e di separazione, il preludio al Ghetto della Còntroriforma. Questa premessa non tragga in inganno. La formazione dell'autrice, il suo forte inclinare verso gli aspetti simbolici ed anche narrativi della vicenda presa in esame dovrebbero giustificare una simile apertura, tanto più che il libro, pur nell'intrinseca sua difficoltà, ha il prestigio di uno stile sciolto, scorrevole, niente affatto accademico e anche piacevole, malgrado l'oggetto della trattazione sia spesso tutt'altro che piacevole, come è ovvio. Ma il merito precipuo di questo libro consisteproprionella sua tesi centrale, espressa con chiarezza nella nota introduttiva: "Questa non è una storia dell'antisemitismo. La storia dell'antisemitismo è solo un momento, necessario ma non esclusivo, di questo perçorso. La storia che ho voluto narrare è, infatti, quella di un'esperienza originale e creativa di vita, di organizzazione, e di pensiero, e non quella di una lunga catena di persecuzioni e di lutti" (p. IX). Per il pubblico italiano si tratta di una novità rivoluzionaria sotto ogni risvolto: un'ipotesi di ricerca portata a compimento in contrapposizione alla diffusa e fino a ieri vincente "concezione lacrimosa della storia ebraica". Nel fare questa affermazione di metodo la Foa scuote alle radici un dibattito storiografico che da noi è talora pigro, anchilosato e c'è davvero da ritenere che tale sorridente spavalderia sarebbe piaciuta a PrimoLevi lettorede Il Viscontedimezzato inquel suo mirabile, sia pur minimizzato, affresco di Argon (in Il sistema periodico), dove tentò lui pure, a suo modo, evitando ogni concessione al piagnucoloso, di dare un ritratto "in positivo" dell'ebraismo dei suoi antenati. Volesse il cielo che, prima o poi, qualcuno, sulla scia di questo libro, proseguisse sulla strada inaugurata dalla Foa e ci desse una storia degli ebrei contemporanei, vale a dire vissuti dopo l'emancipazione, ispirata ad analoghi criteri vitali e non mortuari. Solo, si sarebbe desiderato, davanti a tanta franchezza e altrettanto coraggio di dire le cose fino in fondo, che questo ammirevole auspicio, che cioè dalla storia dei morti al fine si passi alla storia dei vivi, fosse un auspicio in tutto e per tutto chiarito al lettore, svelato nella sua più intima essenza. È infatti palese che ci troviamo di fronte ad un dilemma classico, che nel dopoguerra ha diviso, e anche dolorosamente lacerato, da un lato l'ebraismo diasporico (normalmente più sensibile al "lacrimevole") e d'altro lato la cultura, e l'ideologia, sionista (per definizione, se non anche per ne33
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