Linea d'ombra - anno X - n. 74 - settembre 1992

IL CONTISTO sono assolutamente indispensabili in una società democratica. Le società organizzate intorno a una gerarchia di privilegi possono fornire modelli diversi, ma la democrazia no. Una duplicità di modelli significa una cittadinanza di seconda classe. Il riconoscimento dell'uguaglianza dei diritti è una condizione necessaria ma non sufficiente della cittadinanza democratica. A meno che tutti abbiano le stesse possibilità di accedere ai mezzi di competenza (potremmo chiamarli così), l'uguaglianza dei diritti non garantirà il rispetto di sé. Ecco perché è un errore basare la difesa della democrazia sulla finzione sentimentale che le persone siano tutte uguali. Isaac mi accusa di attribuire questa idea all'Illuminismo per adottarla lui stesso poche righe dopo: "Le persone, in quanto membri di una sola specie umana, sono fondamentalmente uguali per quanto riguarda le loro capacità di autonomia, e... meritano perciò lo status moralmente e politicamente uguale di cittadini". Ma in realtà le capacità delle persone non sono uguali (il che naturalmente non ci impedisce di entrare con l'immaginazione nella vita altrui). Come ha sottolineato Hannah Arendt, l'Illuminismo ha affrontato il problema alla rovescia. È la cittadinanza che conferisce uguaglianza, non l'uguaglianza che conferisce il diritto alla cittadinanza.L'identità non è l'uguaglianza, e "l'uguaglianza politica, perciò, è l'esatto contrario dell'uguaglianza di fronte alla morte", dice la Arendt, " ...o dell'uguaglianza di fronte a Dio". L'uguaglianza politica - la cittadinanza- uguaglia persone che sono per il resto disuguali nelle loro capacità, e l'universalizzazione della cittadinanza deve perciò accompagnarsi non solo a un'educazione civica, ma a misure volte ad assicurare la più ampia distribuzione della responsabilità economica e politica, l'esercizio della quale è ancor più importante dell'insegnamento formale delle capacità di giudicare correttamente, di parlare chiaramente su un tema, di decidere e di accettare le conseguenze delle nostre azioni. In questo senso la cittadinanza implica un intero mondo di eroi. La democrazia esige un tale mondo, se la cittadinanza non vuole diventare una mera formalità. La democrazia esige anche un'etica più vigorosa della tolleranza. La tolleranza è una bella cosa, ma è solo l'inizio della democrazia, non il suo fine. Nella nostra epoca la democrazia è minacciata più seriamente dall'indifferenza che dall'intolleranza o dalla superstizione. Siamo diventati troppo bravi a giustificarci -peggio, a giustificare gli "svantaggiati". Siamo così impegnati a difendere i nostri diritti (diritti conferiti per la maggior parte da sentenze giuridiche) che pensiamo poco alle nostre responsabilità. Raramente diciamo ciò che pensiamo, per timore di offendere. Siamo decisi a rispettare tutti, ma abbiamo dimenticato che il rispetto dev'essere meritato. Rispetto non è sinonimo di tolleranza o di apprezzamento per "stili di vitae comunità alternative", come significativamente dice Isaac. Questo è un approccio turistico alla morale. Rispetto è ciò che proviamo in presenza di opere ammirevoli, di caratteri ammirevolmente formati, di doni naturali messi a buon frutto. Esso comporta l'uso di un giudizio discriminante, non l'accettazione indiscriminata. La nostra epoca si affanna stretta fra due grandi, paralizzanti paure: il fanatismo e la guerra razziale. Avendo recentemente scoperto la relatività di tutti i sistemi di credenze e di tutte le ideologie, siamo ossessionati dal timore che nasce quando delle verità parziali sono prese per universali. In un secolo dominato dal fascismo e dal comunismo, questo timore è comprensibile; ma oggi è sicuramente possibile sostenere, senza essere accusati di compiacenza, che la minaccia totalitaria sta perdendo forza. Né il fondamentalismo islamico rappresenta un pericolo equivalente, come ci viene spesso detto. Coloro che si preoccupano troppo del fanatismo ideologico cadono spesso in quella compiacenza verso 24 se stessi che vediamo specialmente negli intellettuali liberali. È come se solo loro capissero i pericoli di un'universalità malposta, la relatività della verità, la necessità di sospendere il giudizio. Questi devoti intellettuali di grande apertura mentale si considerano una minoranza civilizzata in un mare di fanatismo. Orgogliosi della loro emancipazione dalla religione, essi fraintendono la religione come un insieme di dogmi definitivi e assoluti, resistenti a ogni tipo di apprezzamento intellettuale. Essi non vedono la resistenza contro il fanatismo nella religione stessa. La "ricerca della certezza", come la chiamava Dewey, non è mai stata condannata con altrettanta passione come nella tradizione profetica comune all'ebraismo e al cristianesimo, che mette continuamente in guardia dalle idolatrie, compresa l'idolatria della chiesa. Come molti altri intellettuali, lsaac dà per scontato che la religione risponda al bisogno di un "rifugio sicuro" - il che dimostra solo che non sa di cosa stia parlando. Sembra che vi siano dei limiti anche ali' apertura di unamentalità aperta - limiti immediatamente rivelati quando si affronta il tema della religione. Il problema dell'intolleranza razziale è strettamente legato a quello del fanatismo. Anche qui c'è una buona dose di compiacenza e di presunzione mescolata alla paura dell'intolleranza. Gli intellettuali liberali sembrano prostrati dalla delusione di essere i soli ad aver superato l'intolleranza razziale. I loro concittadini, secondo loro, restano incorreggibilmente razzisti. La loro disponibilità a ricondurre tutte le discussioni al tema della razza è sufficiente a suscitare il sospetto che l'importanza da essi attribuita al tema sia sproporzionata rispetto alla attuale situazione dei rapporti inter-etnici. La monomania non è un segno di capacità di giudizio. Ma, che nasca dalla presunzione o dal panico o dalla mescolanza delle due cose, l'idea che la maggior parte degli americani resti fondamentalmente razzista non regge a un'analisi accurata. Il miglioramento dei rapporti razziali è uno dei pochi sviluppi positivi degli ultimi decenni. Non che i conflitti razziali siano scomparsi; ma è un grave errore interpretare ogni contrasto come prova dell'atteggiamento retrogrado dell'americano medio - come un revival dell'intolleranza storica che ha giocato un ruolo così importante nella storia del nostro paese. Il nuovo razzismo è reattivo piuttosto che residuale, meno ancora risorgente. È una risposta, per quanto inadeguata e offensiva, a un doppio modello di giustizia razziale che colpisce la maggior parte degli americani come irragionevole e ingiusto. Poiché l'opposizione a un doppio modello "affermativo" è immediatamente liquidata come razzista, una delle reazione delle classi lavoratrici e piccoloborghesi tormentate dall'azione e dall'impegno affermativo, e ora anchedegli studenti universitari tormentati dai tentativi di rinforzare il linguaggio e il pensiero politicamente corretti, è l'accettazione del "razzismo" come bandiera - per agitarla, con studiata provocazione, davanti a coloro che vogliono rendere il razzismo e i diritti delle minoranze gli unici argomenti di dibattito pubblico. Dal punto di vista dei liberali ossessionati maniacalmente dal razzismo e dal fanatismo ideologico, il "problema della democrazia", come lo chiama Isaac, può solo essere la difesa di quella che essi chiamano diversità culturale. Come ho già detto, il loro rispetto per la diversità si comprende meglio come forma di apprezzamento estetico, ma in ogni caso esso intralcia problemi più importanti - la crisi delle competenze, il diffondersi dell'apatia e di un soffocante cinismo, la patalisi morale di coloro che considerano I"'apertura" lacosa più importante. Negli anni Settanta del secolo scorso, Walt Whitman scriveva: "Non c'è mai stato, probabilmente, un vuoto più grave di quello attuale, e proprio negli Stati Uniti. La fede genuina sembra averci abbandonato". Queste parole sono più attuali che mai. Quando saremo pronti ad ascoltarle?

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