Linea d'ombra - anno X - n. 74 - settembre 1992

IL CONTESTO ostilità alla piccola borghesia e ai suoi valori. Disprezzando la difesa populistica del localismo e la sua ostilità al progresso, la sinistra si è allontanata dall "'opinione pubblica" e ha cercato rifugio nella tecnocrazia e in istituzioni anti-maggioritarie come la burocrazia e la Corte Suprema. Qui le tesi di Lasch assomigliano a quelle dei neo-conservatori, poiché egli sostiene che l'intellighenzia liberale di sinistra costituisce una "nuova classe" i cui vaghi programmi di liberazione sessuale e riforma sociale sono portati avanti attraverso il controllo anti-democratico delle leve strategiche del potere culturale. Ma Lasch dissente profondamente dai neo-conservatori pioché sostiene con decisione che le radici della nostra "decadenza" culturale si trovano in una fede nel progresso condivisa ugualmente dai socialisti e dai capitalisti. Mentre il neo-conservatorismo si limita a essere ambiguamente anti-moderno, criticando le contraddizioni culturali del capitalismo, ma non quelle economiche, Lasch critica senza ambiguità sia il modernismo culturale che quello economico. Un aspetto importante della sua posizione è infatti una profonda avversione al potere corporativo e alle tendenze omologatrici del mercato capitalistico. Il libro di Lasch è un libro di straordinaria ricchezza e importanza. Mi restano dei dubbi sulla coerenza della "tradizione di critica sociale populista" che Lasch tenta di delineare, ma non c'è dubbio che il suo sforzo dimostri grande creatività e ingegnosità. È certamente corretta l'analisi che indica come tratto distintivo della modernità la sua fiducia nel rapporto fra potere dell'uomo e libertà dell'uomo, e che questa fiducia è stata messa in crisi dalla storia del XX secolo - due guerre mondiali, il totalitarismo, l'olocausto, il degrado ambientale. La malattia culturale del nostro tempo va oltre l'annientamento fisico e politico della nostra fede nel progresso. Essa riguarda problemi più fondamentali, come il significato della vita stessa. A quale fine dovrebbe essere utilizzato il potere dell'uomo? Quali sono i suoi limiti? Come possiamo distinguere e sostenere i valori in un mondo il cui inarrestabile progresso tecnologico ed economico sembra svuotare di valore tutto ciò che ci circonda? Come possiamo coltivare le differenze che ci distinguono gli uni dagli altri in un mondo di imperativi economici e politici sempre più omologanti? Il semplice elenco di queste domande indica l'impoverimento della nostra politica, che sembra incapace di dar vita non solo a una visione morale importante, ma anche a una politica efficace. Il risultato è che il nostro discorso politico sembra stranamente estraneo alle preoccupazioni della vita quotidiana e la condizione di semplice cittadino è una condizione priva di potere di fronte agli imperativi apparentemente inesorabili dei sistemi economici e politici. Paiono quindi molto attraenti le tesi di Lasch a favore di un recupero dell'idea di limite e in difesa della famiglia, dell'amicizia, del vicinato e della religione, dato che esse toccano senza dubbio alcuni dei bisogni più urgentemente sentiti da molti abitanti del mondo contemporaneo, che cercano sicurezza e rifugio da una realtà spietata. Ma il punto di partenza della tesi complessiva di Lasch mi trova profondamente in disaccordo. Egli dedica molte pagine a sostenere la "speranza" contro il progresso e la nostalgia, ma spesso è difficile capire la differenza fra la sua "speranza" e la nostalgia. È difficile evitare il sospetto che la sua critica alla modernità sia troppo facile e che alla fin fine egli cerchi rifugio in un mondo perduto, un mondo, per di più, che dovremmo essere felici di aver perduto. In breve, nella sua critica stringente all'irrealistica fede nel progresso, Lasch rifiuta indiscriminatamente la possibilità- anzi, la realtà- del progresso stesso. Una volta ammesso, con Lasch, che un certo ottimismo prometeico caratteristico dell'umanesimo moderno è profondamente viziato, dobbiamo però riconoscere, e Lasch non lo fa, che l'umanesimo è una cosa buona e che il mondo moderno mantiene almeno la promessa di essere un mondo migliore di quello che l'ha preceduto. L'immagine che Lasch dà dell'Illuminismo, per esempio, è nel migliore dei casi una caricatura e nel peggiore un fraintendimento del pensiero illuministico. Egli descrive i cosmopoliti europei del XVIII secolo come "arroganti" e "ingenui" e osserva sarcasticamente che Kant "rese la morale indipendente dal suo contesto sociale". Nel sottolineare la cecità dei filosofi illuministi sui problemi connessi al particolarismo, Lasch ignora semplicemente l'importanza della prospettiva universalistica articolata con tanto vigore da pensatori come Kant. Dopo tutto, il contesto sociale da cui Kant rendeva indipendente la morale non contemplava la libertà della maggior parte di coloro che lo abitavano. Come dobbiamo prendere l'affermazione semplicistica di Lasch che il cosmopolitismo illuministico "si fondava sulla convinzione che tutti gli uomini siano uguali ... [il che] a volte diede luogo a riforme selvagge non temperate dal minimo dubbio sul 16 fatto che i riformatori illuminati avessero il diritto di decidere per tutti"? Lasch ha senza dubbio ragione quando associa il Panopticon di Bentham e la Rivoluzione Francese a un'entusiastica fede nella Ragione che sfiorava l'autoritarismo. Ma cosa dire di misure "selvagge" come la libertà di stampa, l'abolizione della schiavitù, la riforma penale, l'eliminazione della tortura e l'estensione del suffragio? Lasch sembra sospettare indiscriminatamente di tutti gli aspetti dell'universalismo illuministico. Ciò che egli chiama derisoriamente "il presupposto dell'uniformità" coincide solo con grande difficoltà con l'idea ingenua che tutti gli uomini siano uguali in tutto. Ciò che si scopre invece leggendo le opere di filosofi come Locke, Rousseau e Kant è la convinzione che le persone, in quanto membri di una sola specie umana, sono fondamentalmente uguali per quanto riguarda le loro capacità di autonomia, e meritano perciò lo status moralmente e politicamente uguale di cittadini. Voltaire, citato da Lasch, lo dice chiaramente: "Essi hanno tutti gli stessi organi vitali, la stessa sensibilità e gli stessi movimenti". Questa è presumibilmente la ragione per cui possiamo affermare con sicurezza che torturare o mutilare una donna di una tribù malese non è più giustificato di quanto lo sia torturare o mutilare un membro della comunità occidentale in cui ci è capitato di vivere. Senza questa idea, il concetto di diritti universali dell'uomo non avrebbe senso. Non è un progresso il fatto che non viviamo più in un mondo simile? La sbrigatività di Lasch nei confronti dell'Illuminismo non colpisce solo l'universalismo ugualitario, ma una più generale valutazione della ragione. Commentando le somiglianze fra gli scritti di Agostino e quelli di Machiavelli, Lasch nota che entrambi gli scrittori sottolineano l'imprevedibilità dei fenomeni stùrici. Lasch osserva che "per quanto questo modo di comprendere la storia fosse concettualmente inadeguato, perlomeno non [ci] ha esposti ... all'illusione che l'uomo possa controllare la storia a seconda dei propri scopi o costruire un nuovo ordine sociale in grado di sottrarsi all'effetto corrosivo del tempo". L'osservazione sulle "inadeguatezze concettuali" è fatta di passaggio, ma non approfondendola Lasch può evitare di affrontare uno degli aspetti più importanti della modernità - la scienza. Essendo un eminente storico, Lasch certamente non ignora che l'idea di una Provvidenza o di un Fato imperscrutabile che governi il mondo è profondamente "inadeguata". Ma se dovesse riconoscere l'importanza, anzi il valore reale, delle spiegazioni moderne, scientifiche, causali, dovrebbe riconoscere anche la nostra possibilità di capire molte cose sul funzionamento del mondo stesso. Inoltre, pur non potendo sottomettere la storia ai nostri scopi né ovviare al fatto che le nostre creazioni sono periture come noi, possiamo usare lenostre conoscenze per cambiare il mondo a seconda dei nostri scopi. Noi facciamo effettivamente la storia, benché in circostanze non scelte da noi, né di solito con i risultati sperati. L'alternativa a credere questo sarebbe credere che Dio, o un essere vendicativo chiamato Fato, faccia la storia al posto nostro, di nascosto da noi. Non credo che Lasch la pensi così, ma se così fosse non compie alcuno sforzo per difendere la sua tesi. Lasch sembra spesso valorizzare il senso del "mistero" dell'universo che pervadeva l'epoca pre-moderna. Il grande pregio del suo libro è nel riconoscimento dei pericoli della modernità, che strappa il velo dell'ignoranza e la sostituisce con la conoscenza scientifica della fisica, della biologia, della politica, del genere. Demistificando il mondo, la ragione moderna ci priva della nostra tranquillità e ci incoraggia a capire di più e a fare di più per ampliare i nostri orizzonti in tutti i sensi della parola. L'idea umanistica che l'uomo sia il centro dell'universo ha certamente prodotto molte vittorie di Pirro, ma, come da molto tempo ha riconosciuto Max Weber, è semplicemente impossibile tornare a un mondo che abbiamo perduto. Viviamo in un mondo disincantato e non può essere altrimenti. Ciò significa che dobbiamo imparare a vivere con le nostre pericolose verità, specialmente con la più pericolosa e terribile di tutte - che noi uomini siamo creature tremendamente potenti e che solo noi stessi possiamo porci dei limiti. Il saggio di Lasch sorvola su queste verità. Non sottolinea come esse siano i risultati del moderno Illuminismo. E trae la sua forza da una concezione nect-calvinista del peccato originale e dell'invincibile debolezza dell'uomo che è nello stesso tempo non spiegata e problematica. Ecco in che modo Lasch descrive sarcasticamente "la nuova classe": "In quanto erede delle tradizioni critiche della rivoluzione scientifica è dell'Illuminismo, la nuova classe affida le proprie speranze al trionfo finale dell'intelligenza critica sulla superstizione, del cosmopolitismo sul provincialismo, dell'uomo sulla natura e dell'abbondanza sulla scarsità".

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