IL CONTESTO bene in quanto tale vi è escluso; eppure esso non è eliminabile dalla realtà umana, anzi è, consapevolmente o meno, l'oggetto proprio di ogni umano desiderio. Come sostenere questa contraddizione? Come riconoscere che la forza è là sovrana regolatrice dei rapporti sociali e insieme rigettarla? Al centro di questa . contraddizione, sostenuta fino in fondo senza cedere alla tentazione della separazione, si manifesta per Simone Weil il mistero della gratuità. Un episodio della sua biografia basta a esprimere concretamente questa concezione. Mi riferisco al suo Pro getto per una formazione di infermiere di prima linea, presentato nel' 42 a De Gaulle; cioè l'idea di un gruppo di volontarie a cui fosse affidato il compito di assistere i soldati direttamente sul campo di battaglia, realizzando uno scopo umanitario da lei concepito come "una sfida clamorosa alla ferocia che il nemico ha scelto e che ci impone a nostra volta". Ovvero, misurarsi con la logica della forza nella sua espressione più totalizzante, la guerra, in modo da renderne per un verso evidente il meccanismo perverso che coinvolge tutti, e per l'altro richiamare ali' obbligo morale di farne un uso finalizzato alla pace. Ma Simone Weil non si è limitata al gesto esemplare; negli ultimi mesi di vita ha scritto un libro straordinario e per certi aspetti prossimo a quello di Bonhoeffer, La prima radice, al cui centro si trova la critica della nozione di diritto elaborata dalla nostra tradizione giuridica, una nozione legata a quella di forza, poiché la rivendicazione di un diritto ha senso e di fatto si realizza solo se sostenuto dalla forza necessaria a imporlo. A questa nozione essa vorrebbe sostituire quella di obbligo verso l'essere umano, cioè di riconoscimento reciproco dei bisogni fisici e morali dei componenti di una società. Non è difficile vedere quale nesso sotterraneo corra tra obbligo, riconoscimento, gratuità, e dunque dello spirito religioso che sostiene questa teoria politica. Dicevo di Etty Hillesum, di come sia morta ad Auschwitz, a ventinove anni. Ma i pochi scritti che ci ha lasciato, un Diario e delle lettere, non riguardano che in piccola parte l'esperienza del lager, in cui è stata internata solo negli ultimi mesi, e comunque non si tratta di Auschwitz, ma di un campo olandese, tappa di passaggio verso l'annullamento. In effetti ciò che colpisce innanzitutto in questi suoi scritti è il forte distacco dalla tragedia in corso, dalla guerra e dalla stessa persecuzione razziale, pur nella piena consa- ~evolezza di ciò che sta accadendo e nella ferma volontà di non sottrarsi ali' orrore della deportazione. Ciò che piuttosto occupa completamente questa giovane donna è la progressiva presa di coscienza dell'umanità che è in lei sotto l'enorme pressione degli eventi esterni; il compito che le appare prioritario è quello di "lavorare a se stessi" piuttosto che reagire direttamente agli eventi. Di qui, da questo atteggiamento interiore in cui si concretizza la consapevolezza di dover cambiare se stessi per cambiare il mondo, e questo senza minimamente separarsi dal contatto col mondo, subendone anzi totalmente la pressione, di qui mi sembra venga la grande lezione di Etty Hillesum, una lezione forse più ·grande di quella di Bonhoeffer e di Simone Weil; perché infine ciò che in lei è messo in gioco è la pura umanità, nella quale gli stessi termini di religione, morale, società, politica spariscono o si riducono a semplici nomi. Al loro posto troviamo lo sguardo, l'ascolto, il gesto. La guerra, il lager, i tedeschi, gli ebrei non sono altro che nomi in un orribile gioco delle parti in cui l'umanità di ciascuno è colpita e devastata; Dio stesso non è altro che un nàme per dire il punto profondo dell'umanità di ciascuno: "È vero, ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l'inferno e la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli. Uno scenario, una rappresentazione mutevole delle circostanze esteriori. Ma abbiamo tutto in noi stessi e queste circostanze non possono essere mai così determinanti, perché esisteranno sempre delle circostanze - buone e cattive - che dovranno essere accettate, il che non impedì10 sce poi che uno si dedichi a migliorare quelle cattive. Però si deve sapere per quali motivi si lotta, e si deve cominciare da noi stessi, ogni giorno da capo". In queste parole, scelte tra molte altre simili, mi sembra si racchiuda la fede di Etty Hillesum, una fede per la quale le circostanze esteriori, dunque la realtà mondana, è trascesa in nome dell'umanità che ciascuno porta in sé; il desiderio di bene direbbe Simone Weil; la capacità di accettare tutta la realtà contingente e tutta la storia, di riconoscerla in sé nel bene e nel male, nella gioia e nella sventura, dice più concretamente Etty Hillesum: "So tutto, sono in grado di sopportare tutto, sempre meglio, e insieme sono certa che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato. Malgrado tutto. Il che non vuol dire che uno sia sempre nello stato d'animo più elevato e pieno di fede. Si può essere stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te e' è qualcosa che non ti abbandonerà mai più". Mi sembra che a questo "qualcosa" possiamo dare il nome di gratuità nel suo significato più alto, cioè la consapevolezza che tutto appartiene alla vita, anche il male, anche la sventura, anche la morte; una consapevolezza a cui solo lo strapotere dell'io fa velo; occorre andare al di là dell'io, perdere la prospettiva dell'io; dopodich~ tutto ciò che si compie è gratuito, è reale. Se al termine di questo tentativo mi è consentito proporre i termini per la questione gratuità e politica, direi così: è gratuito un agire che porti dentro di sé la consapevolezza della condizione umana, una consapevolezza in cui l'io sia ridotto a un punto e di conseguenza lo spirito di parte, anche quando si tratta della parte che subisce violenza, è vinto dalla volontà di relazione o di accettazione. Non si tratta di quietismo. Il rifiuto della forza significa essenzialmente superare la separazione, l'opposizione, la dualità verso un'unità in cui la contraddizione è assunta nella verità. E ancora: la gratuità è sperimentale, si dà solo in situazione; muove dalla consapevolezza di "aver ricevuto gratuitamente" l'umanità che è in ciascuno, il nostro bene supremo; e opera perché sia riconosciuta, rispettata, accresciuta. Per questo ogni atto gratuito è· immediatamente un atto politico, mediante il quale viene assunta su di sé la situazione dell'altro, fisica e morale, la sua domanda, muta o gridata, di bene, di giustizia, di libertà. Essa porta in sé una volontà radicale di cambiamento e la convinzione che questo si realizzerà immancabilmente, poiché l'aspirazione alla giu~tizia non è niente, ma se si è giusti la giustizia trionfa, comunque. Infine: solo un breve passo separa le situazioni particolari da quella storica in cui siamo immersi; bisogna cominciare a sperimentare la gratuità nelle prime: famiglia, amicizia, ogni tipo di rapporti interpersonali e con le creature della natura; si finirà col sentire su di sé il peso della situazione storica, si sarà costretti a prestare orecchio al suo bisogno di cambiamento. La situazione che ho qui portato ad esempio è quella tragica degli anni trenta e quaranta; certo, una situazione limite e già lontana dal sentire dei più, e che tuttavia è parte iqtegrante della nostra situazione, che nel frattempo si è fatta più umana solo in superficie, mentre al di sotto è proseguita l'opera di immiserimento e rinsecchimento della nostra umanità. In questa situazione ci sembra già molto che si dia per noi o per altri capacità di esercitare la gratuità caso per caso, momento per momento; e in effetti è moltissimo; la gioia, il senso di realtà che ne deriva è il principio st~sso del cambiamento. Ma poi bisogna sentire, nei limiti delle nostre forze ma potremmo essere costretti anche ad andare oltre, la situazione storica nel suo insieme, il suo dolore insopportabile, il suo "perché accade questo?"; sapendo che a questo grido si può rispondere solo ispirando alla gratuità l'azione politica.
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