IL CONTESTO dolorosa; forse potremmo dire una perdita necessaria per liberarsi da una mistificazione oppressiva, un primo passo che avrebbe potuto servire per ripensare il rapporto e che ha invece portato, forse più nella pratica che nel pensiero, verso la sua definitiva consumazione. Il grande merito di Machiavelli è stato di averci indotto a guardare alla realtà sociale con i nostri occhi, a porre quindi il problema, che sarà il grande problema di Marx, dello studio delle leggi che regolano non più solo la gestione del potere ma la stessa vita sociale nel suo insieme. Ebbene questa è una conquista di primaria importanza, è la conquista della modernità, anche se di essa se ne è fatto un uso più o meno cattivo; è una conquista perché non solo non contraddice la possibilità di pensare un rapporto nuovo tra politica, morale e religione, ma al contrario ne è la condizione, la condizione moderna, per tornare a pensarlo nella verità. La nascita di una scienza sociale, e dunque la ricerca delle leggi che regolano la vita sociale, analoga alla scienza della natura, ha imposto storicamente una scelta epistemologica: separare la ricerca scientifica, in ambito sociale come nell'ambito dello studio della natura, dalla riflessione morale e religiosa; oppure stabilire tra queste una relazione non più verticale ma orizzontale, rinunciando a stabilire tra religione, morale e politica un primato di una sulle altre. Evidentemente la prima scelta è di gran lunga più facile, e forse è stata inizialmente una scelta obbligata di fronte alla necessità di combattere il primato secolare della religione. Tuttavia le conseguenze sono state pesanti, malgrado grandi tentativi di proporre un pensiero nuovo capace di rimettere in moto un processo di unificazione: si pensi a Kant, soprattutto o, per altro verso, a Kierkegaard. Tanto più che la questione non è solo epistemologica, ma anche e soprattutto antropologica, poiché la separazione ha comportato una scissione nella coscienz<le nei comportamenti: privato-pubblico, spirituale-secolare, interiore-esteriore, soggetto-oggetto, e quindi la pratica impossibilità a trovare un punto di equilibrio personale, a riconoscere il proprio valore di individuo, fisico e morale, nell' insieme delle espressioni della vita quotidiana. Credo di non semplificare troppo se affermo che questo nostro secolo è stato tragicamente segnato dalla diffusa incapacità a pensare il rapporto tra politica, morale e religione. E non è certo un caso se la necessità vitale di questo rapporto sia stato riproposto nel cuore della tragedia bellica, cioè nel momento in cui la questione non poteva più essere oggetto di pura speculazione, ma era diventata terribilmente pratica. E in effetti di una questione essenzialmente pratica si tratta, nel senso kantiano del termine; poiché è sul terreno del comportamento che noi possiamo misurare il grado effettivo della sua soluzione; lo stesso terreno per intendersi su cui si sono mossi ad esempio Gesù e Francesco. Dicevo che la modernità ci impone di porre la questione del rapporto tra politica, morale e religione su un piano orizzontale. Questo significa che l'oggetto della ricerca non può essere che questo mondo, che riconosciamo questo mondo come il luogo unico e definitivo della nostra esperienza fisica, morale e spirituale. Certo la lettura si modifica a seconda del punto di vista di volta in volta prescelto, ma senza che uno possa prevalere sugli altri, poiché l'obiettivo è piuttosto di coglierli insieme attraverso gli atti. Né potrebbe essere diversamente; la relazione è per definizione esprimibile solo in pratica. Non basta intuire, sentire la relazione, bisogna praticarla, renderla effettiva. Ed è in questo passaggio che possiamo cogliere l'origine della gratuità e il suo mistero. Il gesto del Samaritano presuppone la relazione tra consapevolezza politica e coscienza morale, per questo l'atto che ne consegue ci appare gratuito, ed è questa gratuità a renderlo misteriosamente bello; per chi vi assiste senza conoscere la 8 relazione è semplicemente irrilevante, assurdo, o persino negativo, riprovevole. 3. Per procedere nella riflessione abbiamo dunque bisogno di riferirci a esempi concreti, possibilmente a noi prossimi, della gratuità pensata e sperimentata nella vita politica. Ve ne propongo brevemente tre: quelli di Dietrich Bonhoeffer, di Simone Weil e di Etty Hillesum. Tre personalità, tre esperienze intellettuali e umane molto diverse tra loro: un pastore e teologo riformato, una pensatrice francese di origine ebraica tra le più grandi di questo secolo, una giovane intellettuale olandese anch'essa di origine ebraica. Ciò che li accomuna è innanzitutto, e non a caso, di essere vissuti nel periodo più tragico della storia d'Europa e di essere morti quasi contemporaneamente: Simone Weil nell'agosto del '43 consumata dal desiderio di condividere la condizione dei più colpiti dalla guerra, Etty Hillesum nel novembre dello stesso anno ad Auschwitz, Bonhoeffer nell'aprile del '45 giustiziato dai nazisti. Inizio dal caso Bonhoeffer, perché mi sembra esemplare del percorso che un cristiano deve oggi percorrere per passare dalla separazione alla relazione, una volta che si abbia la forza di porsi in situazione con tutto se stessi. Il cristiano Bonhoeffer, il teologo e pastore Bonhoeffer è insieme un cittadino tedesco, cittadino di un paese in guerra. Certo una paese retto da una dittatura spietata e responsabile principale della guerra in corso; ma anche così egli sa di essere sotto le leggi del suo paese e che se un paese è in guerra ogni atto contro di esso è oggettivamente un atto di tradimento. Questa fu la sua situazione. In questa situazione la quasi totalità della chiesa luterana, come per altro della chiesa cattolica tedesca, non ritenne che l'essere cristiani fosse posto in gioco. Bonhoeffer sì. Così egli si decise per il coinvolgimento: pertecipò alla congiura contro Hitler, fu arrestato e dopo una lunga prigionia ucciso. Durante la prigionia egli si sforzò continuamente di chiarire a se stesso e ai suoi interlocutori il significato insieme religioso e politico di quel gesto. A testimonianza di questo travaglio ci sono rimasti una serie di testi e di lettere confluite nel volume Resistenza e Resa. Al centro di questa straordinaria testimonianza c'è la situazione contraddittoria di cui dicevo. Violare le leggi, qualunque esse siano, è per sé male, ma, afferma Bonhoeffer poco prima dell'arresto, "è certo che non esiste alcun agire storicamente rilevante che non superi mai i limiti posti da queste leggi". La formula è ancora astratta, di principio, ma più tardi in carcere essa si carica di tutto il suo significato cristiano: "La questione paolina, se la circoncisione sia condizione della giustificazione, oggi secondo me equivale a chiedersi se la religionè sia condizione della salvezza. La libertà dalla circoncisione è anche libertà dalla religione". Non lasciamoci fuorviare dal linguaggio; qui Bonhoeffer interpreta in modo sorprendente Paolo che a sua volta interpreta in modo non meno sorprendente Gesù. Siamo nell'universo del linguaggio teologico, ma dietro a questo per Bonhoeffer, come per Paolo e per Gesù, vi è il "caso eccezionale" che impone di andare oltre i limiti della legge; ed è questo andare oltre, altamente problematico e lacerante per la coscienza, che determina l'essere cristiano. Per altro è proprio questo nuovo linguaggio a gettare luce sul significato originario dell'essere cristiano. Che cosa infatti determina lo "stato di necessità" per Gesù, così come Bonhoeffer ci aiuta a ·coglierlo? È, mi sembra, la "necessità escatologica": "Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino. Convertitevi e credete nell' evangelo" (Marco, 1, 15). E cos'altro è l'escatologia di Gesù se non la sospensione/ superamento della dimensione religioso-sacrale della fede? L'evento escatologico sovradetermina l'esistenza del credente in senso "non religioso" pur all'interno di una dimensione (linguag-
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