Linea d'ombra - anno X - n. 74 - settembre 1992

SETTEMBRE1992 · NUMERO74 LIRE9.000 mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo CHRISTOPHER LASCHEJEFFREY ISAAC:MODERNITÀ EPROGRESSO, UNAPOLEMICA GAETA:LAGRATUITÀ NELLAPOLITICA/LAGUERRA ELAPACE:ISRAELE, ITALIA, JUGOSLAVIA L'AUSTRIA DOPOBERNHARD: KOLLERITSCH/ RANSMAYR/ WINKLER TIBORDÉRY/ADAMBODOR:STORIEUNGHERESI DEL'56 EDIOGGI HEANEY: ILDOMINIODELLALINGUA/STORIEDIAGUALUSA, HELDER, LOPES,NINO ~ -.S..; ~..Jl -- ._S'-1 _f}-_.!) d .. , \LE ..., L..V J ;;&> ---,~ fT .P -~• _p , .J!!~. !/}~'• {f .&ì ,{;:, ~ì ~'..J..'\) . ~' f!5 .Jf ~----~ ---=o -~ ~ . - ,,.. !li&'"',_-......~ ~~ ~ ~. ~~ ~il~ ~~:._i! ~F

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Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Foti (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lemer, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. 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Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Amministrazione: Patrizia Brogi Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: Francesco M. Cataluccio, Peggy Boyers, Marco Capietti, Massimo Cecconi, Nicola Crocetti, Luigi De Luca, Mirta De Pra, Osvaldo Majorana, Maddalena Pugno, Luigi Reitani, Alberto Rollo, Alessandra Serra, Barbara Veduci, la casa editrice Feltrinelli, la redazione di "Servitium" , le agenzie fotografiche Contrasto, Effigie e Grazia Neri. Editore: Linea d'ombra Edizioni srl Via Gaffurio 4 20124 Milano Tel.02/6691132. 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Fofi (a p. 25) CONFRONTI 27 Giacomo Barella Qualche domanda ai vincitori dei premi "Linea d'ombra-Santa Cesarea Terme" (Luca Bigazzi, Enrico LoVerso, Maria Rita Masci, Sud Sound System, Gianluigi Toccafondo) 30 Filippo La Porta In difesa della nostalgia 31 Paolo Varvaro Le lettere di Gramsci 33 Alberto Cavaglion L'ebreo intero e l'ebreo dimezzato e gli autori di questo numero (a p. 94). 52 69 Alfred Kolleritsch Antonella Anedda, Anna Maria Carpi, Giovanna Sicari, Rosa Tavelli STQRII 49 57 62. 65 66 75 83 86 90 Josef Winkler Tibor Déry AddmBodor Sandro Vesce Fausto Vitaliano José Eduardo Agualusa Henri Lopes Herberto Helder Jairo Anibal Nino INCONTRI 47 78 80 Christoph Ransmayr José Eduardo Agualusa Henri Lopes SAGGI 38 Seamus Heaney 44 Wendelin Schmidt-Dengler SCIENZA 91 Paolo Vineis Il primato della fioritura e altre poesie a cura di Riccarda Novello Poesie Il cimitero delle cedrangolette Amore Collezione di storia naturale nel circondario di sinistra La perizia Due racconti L'incredibile ma vera storia di D. Nicolau A.gua-Rosada L'anticipo Tre racconti Il narratore Come una balena ingerisce acqua a cura di Michael Cerha Un movimento di mulatti a cura di Livia Apa Opera meticcia a cura di Fabio Gambaro Il dominio della lingua a cura di Giovanni Pillonca La letteratura austriaca dopo Bernhard Per un'etica della comunicazione scientifica La copertina di questo numero è di Tullio Pericoli. I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo stati in grado di rintracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relati.vi.

IL CONTESTO Icone italiane Palermo, Milano e dintorni Marino Sinibaldi Il giudice Borsellino (foto di Francesco Pedone/Contrasto). Non so se l'estate ormai alle spalle di chi legge queste righe ha lasciato che sfumassero le immagini dei giorni di luglio a Palermo. Ma non credo. Perché le strade squarciate e terrorizzat~ e poi le scene, tragiche e grottesche, nella cattedrale, contengono la più raggelante e precisa rappresentazione dello stato morale di questo paese, dei sentimenti oggi in campo, dello scarto e dell' intreccio tra politica e società. Anche nella loro forma per così dire "stilistica", quei volti e quel tumulto, lo smarrimento e la rabbia, le parole vuote che si sono udite e i gesti violenti e per certi versi insensati cui si è assistito sono un'autentica icona di questi nostri anni tragici e banali. E sia chiaro, icone e simboli nazionali italiani, per nulla solo siciliani o meridionali. Sotto gli occhi abbiamo perciò avuto la sintesi più inequivoca ed efficace di quanto sta accadendo in Italia, dove il residuo tessuto sociale di un paese esile e contraddittorio, le residue minime forme di relazione, di identificazione, di convivenza si disfano, davanti alla ferocia della barbarie, alla pervasività della corruzione, all'impotenza delle risposte e delle alternative. La sconfitta della parte sana di questo paese (e riconosco di usare una categoria approssimativa e ambigua) comunque sta nel fatto di non trovare più amici affidabili e forti e di scoprire invece nemici molto più potenti e crudeli di quanto forse credeva o amava credere. Non sto pensando solo alla mafia, naturalmente, ma piuttosto a quell'insieme di fenomeni che, ancora per mancanza di parole più adeguate, siamo soliti qualificare come disgregazione morale. Nell'Italia che anche chi si era fatto miope per convenienza personale, per debolezza intellettuale o per calcolo politico ha in questi mesi dovuto riconoscere come il paese dell'immoralità della politica e dell'amoralità della società, in questa Italia la mafia è solo il frammento più spettacolare e sanguinoso dello sfascio di una società. Dietro, alle spalle anche della sua sempre più cruenta invincibilità, c'è quel lento, esasperante, inarrestabile s~lacciamento di ogni speranza e fiducia reciproca, di ogni nconoscimento e identità, di ciò insomma che pur in modo pe_renn~me?tei?certo e provvisorio teneva insieme questo paese e 1 su01 ab1tant1.So bene che questa immagine di cittadini un tempo associati da qualche forma di identità, di solidarietà, di 4 riconoscimento collettivo è probabilmente falsa e sicuramente ingenua. Ma c'è stato anche nella storia recente di questo paese un tempo in cui si poteva sperare, o almeno si potevano riconoscere i nemici e anche gli amici, in cui si potèva puntare su qualcosa, su qualche forma, su qualche idea e qualche collettività. Senza deprecare o rimpiangere nulla, questo va ricordato se non altro perc~é aiuta a capire lo sbalzo, il trauma, lo strappo che oggi parahzza o confonde la coscienza civile degli italiani. Questa mi sembra, guardando in queste ore le terribili immagini di Palermo, la vera dimensione della sconfitta, quella da cui non si p~ò uscire. _Perchénel volto odioso e terreo del potere a~serraghato nella cattedrale come in quello ferito e disperato che ciecamente lo assedia è segnato il perimetro della nostra attuale impotenza. Se provo a mettere ordine nei miei sentimenti e a ragionare, dopo l'immediata identificazione con chi chiede di cacciare i politici da quel funerale, in quella moltitudine ben intenzionata e "giusta" vedo solo il frutto di una lacerazione e nulla che dia speranza; solo la sterilità vana e in certo senso consolatoria della disperazione. Quella gente (sicuramente la ~os:ra gente) non vede che non ci sono nemmeno più, i politici; m tlvù ne ho scorti pochissimi, intorno a quelle bare. La resa, in realtà, è già assoluta, il disastro è più totale di quanto non creda la folla irata e generosa. Se ne parlo, se cerco di limitare o razionalizzare l'ovvia e istantanea simpatia, è perché lì sta l'altra faccia della scon:Pittae lo specchio impietoso dell'impotenza. La stessa debolezza e gli stessi errori che caratterizzano tutti i conflitti e le esasperazioni da cui questo paese apparentemente immobile è invece convulsamente attraversato; e da cui non sembra nascere nulla di buono. Lo specchio riflette solo lo scomposto agitarsi di tante ferite e tante disperazioni, e .conferma la superficiale - o meglio, la superiore - immobilità. (Quella per cui, ormai credo lo abbiamo capito tutti, la mafia stabilizza e non destabilizza.) Cosa fare? Forse nulla, forse l'onestà e una radicalità intellettuale all'altezza di questo disastro imporrebbero di ammettere che ?on c'è nulla da fare, che le ferite sono troppo profonde e gravi, e non resta che chinare il capo e cercare, nel proprio "particulare", una qualche individuale salvezza. O forse, sotto la p~ess~onedelle emozioni di queste ore, è ancora più forte il rischio d1framtendere, e dunque mi sbaglio. Forse nei volti rabbiosi di Palermo, negli appelli rituali e nelle generiche denunce, come nel voto populista di aprile o nell'onesto disgusto espresso in poche, mute lenzuola bianche, c'è almeno il seme di una reazione almeno la fragile e lontana possibilità di un futuro diverso d~ quello che incombe. Davvero non lo so. Ma mentre intellettuali scellerati ripetono, come una litania resa ridicola dagli eventi, l'allarme per ogni possibile identificazione tra politica e morale -come se fosse lo "stato etico" il pericolo che minaccia l'Italia come se in questo paese già troppi, mafiosi e antimafiosi, no~ pensassero, giudicassero, agissero m~hiavellicamente-, se c'è una speranza e una possibilità d'impegno non solo individuale, sta in qualcosa di diverso e lontano dalla politica, dalle sue attuali forme e valori. Nominare cos'è non è facile, non èmai stato facile. Cinquanta anni fa, in un'altra situazione storica, davvero in tutt'altr_a situazione, Nicola Chiaromonte scriveva: "In questo stato d1 cose, per coloro che decidevano di non arrendersi,

l'affiliazione politica aveva poca importanza, mentre ciò che realmente contava era la presa di posizione morale, e la ricerca di rigore intellettuale assunse la stessa urgenza di quella del pane quotidiano". Parlava, Chiaromonte, dell'Italia sotto il fascismo, del rigore e dell'isolamento degli antifascisti (etra le poche letture che in ore come queste possono aiutare ci sono queste pagine, ripubblicate dal Mulino nel volume Il tarlo della coscienza). Sembrano parole lontane da un paese lontano. Ma davvero tanto lontano, davvero tanto diverso? Parlava, Chiaromonte, di un paese dove."dal punto di vista etico" era richiesta "all'individuo e alla comunità una resa incondizionata" e dove dunque era "impossibile considerare la morale come una questione privata". Parlava di una "questione morale" che stava specificamente nello "scegliere ciò che ciascuno sarebbe dovuto essere, indipendentemente dalla possibilità di successo che aveva". Servirebbero oggi parole nuove, idee nuove. Ma forse in mancanza di quelle che nessuno sa o può inventare si può cominciare da idee o parole come queste, vecchie, certo, ma provenienti da un passato poco praticato e poco sperimentato, rapidamente rimosso e schiacciato dalle grandi, infauste culture nazionali. Parole che dovrebbero finire di apparire solo nobili e cominciare a diventare utili. Perché comunque non si può ormai prescindere dalla consapevolezza di quel rapporto tra indi".iduo e società, tra etica e politica, tra rigore intellettuale e moralità. Abbia ragione la disperazione o la speranza, il pessimismo apocalittico che ci suggerisce la cronaca da Milano a Palermo o il volenteroso, disperato e oggi impotente ottimismo degli onesti. Ai funerali degli agenti della scarta di Borsellino, Palermo 21-7-92 (fata di Eligio Pooni/Cantrasta) IL CONTESTO Tra uccideree morire. Per un intervento nonviolento nell'ex Jugoslavia Gianfranco Bettin Chiunque sia stato, dalla fine dello scorso anno, nelle regioni tormentate dell'ex Jugoslavia e abbia visitato i campi dei profughi provenienti soprattutto dalla Bosnia-Erzegovina, ha potuto ascoltare infiniti racconti di orrore e di morte. Nei campi ci sono quasi solo bambini, vecchi e donne, cioè coloro che da sempre rappresentano, nella vicenda di tutte le guerre, la popolazione inerme. Quella letteralmente "senza armi", che non combatte perché non può, ma anche perché delle armi ha un'antica esperienza distruttiva e vi scorge ciò che soprattutto le armi sono: strumenti di morte e annientamento, sempre. Chiunque segua i reportage giornalistici da Sarajevo o dalle altre zone devastate dalla guerra può rendersi conto, anche da casa, di quale sia ormai il punto di degenerazione cui si è giunti. E non può che andare così, in una storia che è sempre più storia di rotture fratricide e di esasperazione di ogni conflitto e di ogni differenza. In cui la prospettiva del dialogo è nei fatti ritenuta da tutte le parti in causa come impraticabile e, anzi, non è neppure considerata. Ogni tregua è effimera, quando non si riduce a una truffa, a un beffardo trucco per meglio aggredire e colpire. È in questo quadro di impotenza della ragione pacifica e della ragione tout court che può nascere la tentazione e, a volte, la vera e propria invocazione di una superiore forza delle armi da contrapporre, per stabilire una tregua piegando gli irriducibili, alla brutale e interminabile faida attuale. Visitando più volte diverse regioni dell'ex Jugoslavia ho sentito ovunque, non solo dai profughi, levarsi questa richiesta. Anche da persone e gruppi per vocazione pacifici e pacifisti, resi disperati dalla catena di sangue e dalla apparente assenza di ogni altra possibile soluzione. La comunità internazionale è stata in questa vicenda ingiusta e ignava insieme. Ha teso, soprattutto, a riconoscere i fatti compiuti. Sia quando si trattava di esitare di fronte alla proclamazione d'indipendenza e sovranità dei nuovi stati che si formavano, per timore di rompere lo status quo precedente, sia quando si trattava -e si tratta -di far recedere gli eserciti, almeno quello serbo e quello croato, dalle regioni che abusivamente e con la prepotenza delle armi stavano e stanno occupando. La comunità internazionale si è misurata soprattutto con la ragion di Stato e con le ragioni delle armi, e a esse si è piegata. La sola alternativa che si è lasciata, oggi, è di opporvi, a propria volta, una ragione armata ancora più agguerrita, cioè di riproporre nei Balcani, nei modi relativi, il modello "Desert Storm". Quanto sia preoccupante questa ipotesi e quanto sia comunque ostica da praticare nell'intricato contesto geografico, etnico e politico dell'ex Jugoslavia è cosa che va ribadita, nell'interesse della pace e di una possibile ripresa del dialogo tra le parti, che difficilmente potrebbe ricominciare all'indomani di una soluzione "irakena". Ma l'esitazione di chi teme un degenerare del conflitto, a seguito di una possibile "tempesta sui Balcani", e addirittura un suo deflagrare ulteriore, che potrebbe infiammare il cuore stesso d'Europa, non può motivare l'ignavia di fronte alla strage degli innocenti che si sta compiendo. C'è dunque una via diversa tra l'ignavia o peggio il cinico disinteresse verso una guerra "di serie B" (né petrolio né velleità imperiali da difendere) e il ricorso, ancora una volta, alla ragione del più forte e del più armato? Cioè, in quest'ultimo caso, alla guerra come rimedio alla guerra? Più volte, in quest'anno di crisi e di conflitto sanguinoso nell'ex 5

IL CONTESTO Jugoslavia, soldati (foto di Ron Haviv/Sabo/Con11aslo). Jugoslavia è stata rivolta ai pacifisti la domanda fatale: dove siete? Cosa state facendo? I pacifisti e i nonviolenti, in realtà, anche prima che il conflitto scoppiasse hanno cercato come potevasno di impedire il peggio e di porre il problema di una convivenza civile tra le parti. Hanno cercato di tessere le fila del dialogo possibile. In verità, ancorché "utopisti" e "profetici" - qualità che gli avversari spesso concedono loro, sia pure trattandoli con sufficienza e da candidi ingenui, nel migliore dei casi - sono stati in effetti "realisti" e "concreti". Soprattutto dopo lo scoppio del conflitto e in particolare con l'incendiarsi delle ostilità in Bosnia-Erzegovina, ci si è preoccupati di operare concretamente in favore dei più deboli ed esposti. I profughi, la folla di disperati in fuga dalle regioni in guerra, sono stati la preoccupazione principale. Le visite ai campi, la gestione diretta di iniziative di sostegno e di intervento sul posto, la controinformazione sui ritardi dei governi, l'appello ali' opinione pubblica e alle forze politiche, sociali, religiose affinché si mobilitino è andato di pari passo alla reiterazione del messaggio di dialogo e di pace. Il gruppo della "Casa della nonviolenza" di Verona, il Movimento di Azione nonviolenta, le "Donne in nero", il movimento "Beati i costruttori di pace" e l'Associazione per la pace si sono dati da fare in questa direzione. Oggi siamo però a un punto nuovo e cruciale della crisi. Chi ha a cuore la pace, il rispetto dei diritti umani che in guerra viene totalmente meno, e anche nelle retrovie della guerra, nei campi di prigionia sempre più simili a campi di sterminio, nell'accanimento contro gli inermi, chi non vuole più vedere le armi sparare, deve assumere un nuovo livello di presenza e di proposta. In questi giorni di fine agosto, faticosamente ma con ostinazione, si sta lavorando a un'iniziativa audace e per certi versi estrema che potrebbe rispondere al bisogno di colmare il vuoto tra l'ignavia e la logica delle armi. Avviata dall'animatore del movimento "Beati i costruttori di pace", don Albino Bizzotto, è in via di definizione l'operazione "A Sarajevo, disarmati, per la pace". L'idea è quella di far giungere a Sarajevo una sorta di corpo nonviolento di spedizione, di volontari civili, che vada a interporsi pacificamente tra le parti e che dimostri, ai belligeranti e ali' opinione pubblica internazionale, che c'è lo spazio per una vera azione di dialogo, anche in una situazione estrema come l'attuale. Che dimostri che i pacifisti e i nonviolenti ci sono. Che ci sono stati nel corso di quest'anno e che non si tirano indietro neppure adesso. Che non intendono cedere alla logica della distruzione ulteriore, neppure a fini di pace. Che nessuna "tempesta", come proprio l'lrak ha dimostrato, recherebbe, dopo, una vera quiete. Le difficoltà sono enormi, nessuno se lo nasconde. Scetticismo, timori, ostacoli pratici, tra i quali il problema chiave di arrivarci davvero a Sarajevo, sono ovviamente ben presenti a chi sta lavorando a questa "operazione". Ma ben presente è anche la drammatica, e anzi tragica prospettiva che diversamente si configura. Oggi la proposta nonviolenta deve assumere il rischio fino in fondo, pena il testimoniare soltanto la propria impotenza di fronte alla barbarie delle armi. Era già accaduto nella fase successiva alla resa del- !' esercito irakeno, quando Saddam, cessato il fuoco contro le forze occidentali, rivolse le armi contro i profughi kurdi dall'altra parte del paese. Era, ovviamente, accaduto anche prima dello scoppio della guerra contro Saddam. Il pacifismo fu allora assai più ambiguo. Di fronte all'aggressione dell'Irak al Kuwait si esitò ad assumere veramente il problema e a proporre vie efficaci di intervento. Solo a un passo dalla Tempesta ci si schierò sull'embargo, per esempio, dimenticando che la via nonviolenta non è comunque una via di passività, tantomeno al cospetto della prepotenza. Così, oggi, bisogna evitare di rifare quegli errori. Vale la pena di provare, dunque, di pensare a una ipotesi radicalmente diversa di intervento. A settembre una carovana potrebbe mettersi in viaggio, per aprire la strada a un intervento disarmato ma forte della comunità internazionale e testimoniare con realismo e forza politica che tra uccidere e morire c'è un'altra via possibile. La gratuità come categoria dell'agire politico Giancarlo Gaeta Questo testo è stato letto a un convegno della rivista "Servitium" che ringraziamo per averci permesso di pubblicarlo. Tento una riflessione condotta in prima persona a cui mi sento autorizzato per quel pochissimo che ho sperimentato di questa problematica e per quel molto, e per me decisivo, che mi è venuto dalla consuetudine con alcuni spiriti grandi di questo secolo. Una riflessione non sistematica, piuttosto un tentativo di illuminare aspetti diversi di una questione di cui occorre ricercare i termini stessi per la sua enunciazione, e che in definitiva può essere colta solo per via sperimentale. 6 1. "Gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date". Questa parola è estratta di commiato che Gesù, secondo il Vangelo di Matteo, rivolge ai discepoli al momento del loro invio alle città di Israele affinché portino l'annuncio dell'avvento imminente del Regno. Dunque un discorso chiara-01enteescatologico. Albert Schweitzer nella sua Storia della ricerca sulla vita di Gesù, pubblicata all'inizio del secolo, assegna a questo episodio un ruolo decisivo nello sviluppo della vita storica di Gesù. Per Schweitzer l'invio dei discepoli è per Gesù l'atto conclusivo della sua missione, nella convinzione che il movimento di penitenza, iniziato da Giovanni Battista e proseguito da lui stesso, fosse necessario e sufficiente per "costringere la potenza divina ad

attuare il regno di Dio". Ma contrariamente alla sua aspettativa, i discepoli tornarono e l'apparizione del Figlio dell'uomo non ebbe luogo. È questo per Schweitzer il momento cruciale nella vita di Gesù; egli comprese allora l'insufficienza della predicazione della penitenza; occorreva qualcosa di più e di veramente decisivo, la propria passione, cioè l'atto gratuito per eccellenza: dare la vita per il Regno. Dunque l'insegnamento escatologico di Gesù ci dice che l'avvento del Regno dipende dal comportamento umano a condizione che questo sia ispirato alla gratuità; e che un comportamento gratuito comporta la passione, cioè il dono della propria vita fino, in determinate circostanze, al dono della stessa vita fisica; si stabilisce così un rapporto diretto e in certo senso necessario tra gratuità nel comportamento e reale cambiamento storico. Ora tutte queste affermazioni hanno carattere dogmatico, hanno cioè significato solo in quanto espressione di convincimenti personali non dimostrabili; potrebbero essere comprovate _soloa posteriori, vale a dire escatologicamente, dunque fuori della storia, dunque mai. Il Vangelo di Giovanni ha colto in profondità questa situazione annullando l'attesa escatologica, e affermando l'escatologia come già realizzata nell'atto stesso in cui l'amore, cioè la gratuità, è praticata. Torniamo al testo di Matteo. Ciò che il discepolo ha ricevuto gratuitamente è la convinzione profonda, totalizzante, che egli può provocare l'avvento del Regno di Dio, cioè di un un regno di giustizia, ma può farlo solo indirettamente. La sua azione è necessaria e sufficiente, ma la conseguenza certa della sua azione non è a sua misura. Il Regno, si pensi alle parabole, non ha alcun rapporto con i desideri e l'immaginazione umana, è qualcosa che si può solo provocare non costruire, esso viene da altrove; altrimenti sarebbe necessariamente a nostra immagine e somiglianza, e questo tipo di regno c'è già, lo costruiamo tutti i giorni. Dunque "gratuitamente avete ricevuto, gratuitamente date" significa innanzitutto che occorre cambiare se stessi per cambiare il mondo, testimoniando questo cambiamento. Rileggiamo un brano di questo discorso che nella storia del cristianesimo è da sempre una pietra d'inciampo, basta pensare a Francesco: "Andate dunque e predicate dicendo: "Il regno dei cieli si avvicina". Curate gli infermi, resuscitate i morti, mondate i lebbrosi, cacciate i démoni; gratuitamente avete ricevuto gratuitamente date. Non fate provvista né di oro né di argento né di denaro nelle vostre cinture; né di bisaccia per il viaggio, né di due tuniche, né di scarpe né di bastone; infatti l'operaio è degno del suo nutrimento. In qualunque città o villaggio entrerete, ricercate chi vi è che sia degno e dimorate presso di lui fino alla vostra partenza. Entrando nella casa, salutatela, e se essa sarà degna venga la vostra pace su di essa; ma se non è degna, la vostra pace ritorni a voi. E se qualcuno non vi accoglie e non ascolta le vostre parole, uscendo da quella casa o da quella città, scuotete via la polvere dai vostri piedi." (Matteo, 10, 7-14) Qui troviamo delineato per tratti essenziali soltanto un comportamento. Non vi è. un contenuto dottrinale, a parte la semplice affermazione sull'approssimarsi del Regno, e quindi neppure una predicazione. Non si tratta di persuadere nessuno, ma solo di presentarsi in un certo modo, poveramente, di compiere degli atti, anche straordinari ma senza particolare enfasi, come se anche i miracoli fossero operazioni di ordinaria amministrazione ("siamo servi inutili"), e di passare rapidamente oltre. Non c'è niente da costruire perché non c'è progetto, neppure quello di salvare chicchessia; in certo senso ci si occupa più dei corpi che delle anime. La conseguenza inevitabile di questo comportamento sarà di ritrovarsi come "pecore in mezzo ai lupi", sarà dunque la sofferenza e al limite la passione. Ma in definitiva questo non ha molta IL CONTESTO importanza, è nell'ordine delle cose; è una prova che, se accettata, ha significato solo come provocazione ultima del Regno, impone la sua venuta. 2. Ma si chiederà: e la politica? cosa ha a che fare tutto questo con la politica? Moltissimo, mi sembra; a cominciare dalla semplice constatazione che ogni comportamento consapevole e determinato ha valenza eminentemente politica; e non a caso qui si parla di regno: il cambiamento, la conversione, non è nella predicazione di Gesù fine a se stesso, ma per il Regno. E tuttavia l'interrogativo è giustificato a motivo dell'idea che noi moderni abbiamo della politica. Qui devo semplificare nel tentativo di andare il più direttamente possibile al centro della questione. Che cosa è per noi la politica, cosa pensiamo esattamente quando facciamo uso di questa nozione? Negli anni Sessanta e Settanta era un luogo comune della sinistra radicale affermare che tutto è politica, oggi la sinistra moderata afferma la necessità di porre dei limiti alla politica, in mezzo, negli anni Ottanta, si è tentato di volgere semplicemente le spalle alla politica per precipitarsi nel privato. Mi sembra che in tutto questo vi sia una difficoltà forte a pensare la politica in un rapporto chiaro con la propria vita personale e pubblica, o meglio a pensare le ragioni personali della politica; per cui si oscilla tra una concezione totalizzante e il puro rigetto. Ora in tutti questi esempi, o momenti recenti della nostra storia, è evidente che il politico è sempre pensato come una sfera a se stante dell'esistenza sociale, una sfera la cui estensione può essere variamente accresciuta o ristretta, ma che è comunque vissuta come separata. Naturalmente diverso è se la sua estensione è massima: vuol dire allora che l'individuo sarà portato a pensare ogni suo atto in termini politici, vale a dire subordinando se stesso alla società, al limite fino all'identificazione (totalitarismo), oppure, all'estremo opposto, penserà se stesso in opposizione alla società, porrà il proprio interesse contro quello della società, o meglio penserà la società come la somma casuale degli interessi personali (liberismo). Questo secondo caso a prima vista può sembrare migliore del primo; ma di fatto la somma degli egoismi non determina una società di uomini liberi, ma una società in cui si afferma un libero gioco di forze, innanzitutto economiche, in cui alcuni individui, di solito una minoranza, ma potrebbe anche essere una maggioranza come si sta verificando oggi nei paesi più ricchi, domina la parte più debole della società. Non per caso, credo, la nostra storia recente è stata segnata a fondo da un conflitto, quello tra capitalismo e comunismo, presentato e per lo più vissuto come scelta di civiltà, ma che di fatto è ampiamente servito a mascherare il problema vero, che è quello del rapporto tra individuo e società, cioè uno scontro in cui è stata essenzialmente compromessa la possibilità di pensare, di operare, di battersi per "la subordinazione della società all'individuo", secondo una formula di Simone Weil, forse un pò riduttiva del problema ma efficace per rimettere sui piedi la questione sociale. Voglio dire che la grande difficoltà per noi di coniugare l'ambito religioso e quello politico, è prima di tutto una difficoltà di ordine storico e antropologico dal momento che abbiamo concepito questi due ambiti, e quindi anche l'ambito morale, come separati. Non è qui il caso di ripercorrere il processo che ci ha portato a questo, ma è utile aver presente la ragione essenziale che lo ha determinato tra Sei e Settecento. Cioè l'esigenza di liberarsi dal potere totalizzante della teologia, espressione a sua volta dello spirito totalitario della Chiesa formatosi in epoca tardo medievale. All'origine di questa separazione si è soliti porre Machiavelli e la sua "verità effettuale della cosa", cioè della politica intesa come scienza delle leggi effettive della gestione del potere. Una separazione che per altro Machiavelli sentì tanto necessaria quanto 7

IL CONTESTO dolorosa; forse potremmo dire una perdita necessaria per liberarsi da una mistificazione oppressiva, un primo passo che avrebbe potuto servire per ripensare il rapporto e che ha invece portato, forse più nella pratica che nel pensiero, verso la sua definitiva consumazione. Il grande merito di Machiavelli è stato di averci indotto a guardare alla realtà sociale con i nostri occhi, a porre quindi il problema, che sarà il grande problema di Marx, dello studio delle leggi che regolano non più solo la gestione del potere ma la stessa vita sociale nel suo insieme. Ebbene questa è una conquista di primaria importanza, è la conquista della modernità, anche se di essa se ne è fatto un uso più o meno cattivo; è una conquista perché non solo non contraddice la possibilità di pensare un rapporto nuovo tra politica, morale e religione, ma al contrario ne è la condizione, la condizione moderna, per tornare a pensarlo nella verità. La nascita di una scienza sociale, e dunque la ricerca delle leggi che regolano la vita sociale, analoga alla scienza della natura, ha imposto storicamente una scelta epistemologica: separare la ricerca scientifica, in ambito sociale come nell'ambito dello studio della natura, dalla riflessione morale e religiosa; oppure stabilire tra queste una relazione non più verticale ma orizzontale, rinunciando a stabilire tra religione, morale e politica un primato di una sulle altre. Evidentemente la prima scelta è di gran lunga più facile, e forse è stata inizialmente una scelta obbligata di fronte alla necessità di combattere il primato secolare della religione. Tuttavia le conseguenze sono state pesanti, malgrado grandi tentativi di proporre un pensiero nuovo capace di rimettere in moto un processo di unificazione: si pensi a Kant, soprattutto o, per altro verso, a Kierkegaard. Tanto più che la questione non è solo epistemologica, ma anche e soprattutto antropologica, poiché la separazione ha comportato una scissione nella coscienz<le nei comportamenti: privato-pubblico, spirituale-secolare, interiore-esteriore, soggetto-oggetto, e quindi la pratica impossibilità a trovare un punto di equilibrio personale, a riconoscere il proprio valore di individuo, fisico e morale, nell' insieme delle espressioni della vita quotidiana. Credo di non semplificare troppo se affermo che questo nostro secolo è stato tragicamente segnato dalla diffusa incapacità a pensare il rapporto tra politica, morale e religione. E non è certo un caso se la necessità vitale di questo rapporto sia stato riproposto nel cuore della tragedia bellica, cioè nel momento in cui la questione non poteva più essere oggetto di pura speculazione, ma era diventata terribilmente pratica. E in effetti di una questione essenzialmente pratica si tratta, nel senso kantiano del termine; poiché è sul terreno del comportamento che noi possiamo misurare il grado effettivo della sua soluzione; lo stesso terreno per intendersi su cui si sono mossi ad esempio Gesù e Francesco. Dicevo che la modernità ci impone di porre la questione del rapporto tra politica, morale e religione su un piano orizzontale. Questo significa che l'oggetto della ricerca non può essere che questo mondo, che riconosciamo questo mondo come il luogo unico e definitivo della nostra esperienza fisica, morale e spirituale. Certo la lettura si modifica a seconda del punto di vista di volta in volta prescelto, ma senza che uno possa prevalere sugli altri, poiché l'obiettivo è piuttosto di coglierli insieme attraverso gli atti. Né potrebbe essere diversamente; la relazione è per definizione esprimibile solo in pratica. Non basta intuire, sentire la relazione, bisogna praticarla, renderla effettiva. Ed è in questo passaggio che possiamo cogliere l'origine della gratuità e il suo mistero. Il gesto del Samaritano presuppone la relazione tra consapevolezza politica e coscienza morale, per questo l'atto che ne consegue ci appare gratuito, ed è questa gratuità a renderlo misteriosamente bello; per chi vi assiste senza conoscere la 8 relazione è semplicemente irrilevante, assurdo, o persino negativo, riprovevole. 3. Per procedere nella riflessione abbiamo dunque bisogno di riferirci a esempi concreti, possibilmente a noi prossimi, della gratuità pensata e sperimentata nella vita politica. Ve ne propongo brevemente tre: quelli di Dietrich Bonhoeffer, di Simone Weil e di Etty Hillesum. Tre personalità, tre esperienze intellettuali e umane molto diverse tra loro: un pastore e teologo riformato, una pensatrice francese di origine ebraica tra le più grandi di questo secolo, una giovane intellettuale olandese anch'essa di origine ebraica. Ciò che li accomuna è innanzitutto, e non a caso, di essere vissuti nel periodo più tragico della storia d'Europa e di essere morti quasi contemporaneamente: Simone Weil nell'agosto del '43 consumata dal desiderio di condividere la condizione dei più colpiti dalla guerra, Etty Hillesum nel novembre dello stesso anno ad Auschwitz, Bonhoeffer nell'aprile del '45 giustiziato dai nazisti. Inizio dal caso Bonhoeffer, perché mi sembra esemplare del percorso che un cristiano deve oggi percorrere per passare dalla separazione alla relazione, una volta che si abbia la forza di porsi in situazione con tutto se stessi. Il cristiano Bonhoeffer, il teologo e pastore Bonhoeffer è insieme un cittadino tedesco, cittadino di un paese in guerra. Certo una paese retto da una dittatura spietata e responsabile principale della guerra in corso; ma anche così egli sa di essere sotto le leggi del suo paese e che se un paese è in guerra ogni atto contro di esso è oggettivamente un atto di tradimento. Questa fu la sua situazione. In questa situazione la quasi totalità della chiesa luterana, come per altro della chiesa cattolica tedesca, non ritenne che l'essere cristiani fosse posto in gioco. Bonhoeffer sì. Così egli si decise per il coinvolgimento: pertecipò alla congiura contro Hitler, fu arrestato e dopo una lunga prigionia ucciso. Durante la prigionia egli si sforzò continuamente di chiarire a se stesso e ai suoi interlocutori il significato insieme religioso e politico di quel gesto. A testimonianza di questo travaglio ci sono rimasti una serie di testi e di lettere confluite nel volume Resistenza e Resa. Al centro di questa straordinaria testimonianza c'è la situazione contraddittoria di cui dicevo. Violare le leggi, qualunque esse siano, è per sé male, ma, afferma Bonhoeffer poco prima dell'arresto, "è certo che non esiste alcun agire storicamente rilevante che non superi mai i limiti posti da queste leggi". La formula è ancora astratta, di principio, ma più tardi in carcere essa si carica di tutto il suo significato cristiano: "La questione paolina, se la circoncisione sia condizione della giustificazione, oggi secondo me equivale a chiedersi se la religionè sia condizione della salvezza. La libertà dalla circoncisione è anche libertà dalla religione". Non lasciamoci fuorviare dal linguaggio; qui Bonhoeffer interpreta in modo sorprendente Paolo che a sua volta interpreta in modo non meno sorprendente Gesù. Siamo nell'universo del linguaggio teologico, ma dietro a questo per Bonhoeffer, come per Paolo e per Gesù, vi è il "caso eccezionale" che impone di andare oltre i limiti della legge; ed è questo andare oltre, altamente problematico e lacerante per la coscienza, che determina l'essere cristiano. Per altro è proprio questo nuovo linguaggio a gettare luce sul significato originario dell'essere cristiano. Che cosa infatti determina lo "stato di necessità" per Gesù, così come Bonhoeffer ci aiuta a ·coglierlo? È, mi sembra, la "necessità escatologica": "Il tempo è compiuto e il regno di Dio si è fatto vicino. Convertitevi e credete nell' evangelo" (Marco, 1, 15). E cos'altro è l'escatologia di Gesù se non la sospensione/ superamento della dimensione religioso-sacrale della fede? L'evento escatologico sovradetermina l'esistenza del credente in senso "non religioso" pur all'interno di una dimensione (linguag-

Manifestazione pacifista nel gennaio '91 (foto di Luigi Baldelli/Contrasto). gio, culto, comportamenti) che resta religiosa ma drasticamente relativizzata. Ma non basta; contemporaneamente e necessariamente l'escatologia è la "grande tribolazione", che i cristiani, e Gesù stesso, vorrebbero allontanare pur sapendo di non potervi sfuggire; è l'invocazione del "Padre nostro", che ripete per ogni cristiano la supplica del Getsemani: "non ci sottoporre alla tribolazione" (e non come siamo abituati a recitare "non ci indurre in tentazione"); ed è essa che impone alla comunità come al singolo di portare senza infingimenti la responsabilità di questo mondo, perché Dio vi si manifesti realmente come "aldilà", piuttosto che come superfluo "deus ex machina". In questo senso la cosiddetta "interpretazione non religiosa" di Bonhoeffer, altro non è, ed è moltissimo, che l'espressione teologica forse più prossima alla nostra attuale condizione per rendere percepibile e vivibile la situazione escatologica così come Gesù l'ha vissuta: un aldilà che è presente "al centro della nostra vita"; e dunque una scelta "politica" nella situazione data, che ha il pieno carattere della gratuità e insieme della responsabilità, compresa la capacità di sopportare la tribolazione, anche nella forma vergognosa della pena. Molto diverso è il caso Simone Weil e ancor più quello di Etty Hillesum. Intanto perché esse vivono la guerra sul fronte avverso, da resistente la prima, da vittima della persecuzione razziale la seconda. Inoltre nessuna delle due muove dall'appartenenza ad un credo religioso, bensì da un'educazione, da una cultura del tutto laica, rispetto alla quale neppure la comune origine ebraica ha un significato di un qualche rilievo. Simone Weil è stata sin da giovanissima un'intellettuale fortemente connotata in senso politico. Ed è essenzialmente quello della politica il terreno a partire dal quale essa ha sviluppato la sua riflessione. Se per Bonhoeffer ILCONTESTO il luogo della contraddizione è stato la religione, per Simone Weil tale luogo fu piuttosto la politica. Quanto a Etty Hillesum, che non fu né religiosa né politica, il luogo della contraddizione fu essenzialmente quello della pura e semplice umanità. L'esperienza politica ha dunque segnato tutto il pensiero di Simone Weil: l'esperienza militante dapprima, quindi la ricerca teorica in cui la sfera politica appare inseparabile da quella religiosa; meglio una ricerca finalizzata a prospettare un modello di civiltà in cui arte, poesia, filosofia, scienza e politica non si distinguono dalla religione. Non si tratta di un modello utopico quanto regressivo rispetto allo sviluppo della modernità. Poiché al contrario la sua riflessione si iscrive consapevolmente nel moderno pensiero sociale e politico, a partire precisamente da Machiavelli e da Marx. Cito dal primo volume dei Quaderni: "Società. I fenomeni sociali sfuggono all'intelligenza umana. Lo spirito umano è per natura incapace di pensare quel tutto di cui esso è una parte. Tuttavia si riesce a enucleare alcune leggi (Machiavelli e gli sc1ittimachiavellici). In qual modo e quali sono i limiti? (Questo mistero crea un'apparente parentela tra sociale e soprannaturale)". Dunque, il sociale è il luogo per eccellenza della contraddizione: noi cerchiamo di capire e regolare un tutto di cui siamo una parte. Si ripete così per noi moderni di fronte al mistero della società la situazione che fu degli antichi di fronte al mistero della natura. Ma se si conduce fino in fondo la riflessione al riguardo, se cioè ci si sforza nel limite del possibile di trovare delle leggi della vita sociale, ci si trova inevitabilmente di fronte al soprannaturale, analogamente a quanto è accaduto ai grandi pensatori dell'antichità, ai filosofi della natura. Più precisamente si scopre di nuovo il conflitto insanabile che secondo Simone Weil è al centro del pensiero greco prearistotelico: il conflitto, la contraddizione tra la necessità e il bene. La società e quindi l'esercizio della politica soggiaciono al regno della necessità, il 9

IL CONTESTO bene in quanto tale vi è escluso; eppure esso non è eliminabile dalla realtà umana, anzi è, consapevolmente o meno, l'oggetto proprio di ogni umano desiderio. Come sostenere questa contraddizione? Come riconoscere che la forza è là sovrana regolatrice dei rapporti sociali e insieme rigettarla? Al centro di questa . contraddizione, sostenuta fino in fondo senza cedere alla tentazione della separazione, si manifesta per Simone Weil il mistero della gratuità. Un episodio della sua biografia basta a esprimere concretamente questa concezione. Mi riferisco al suo Pro getto per una formazione di infermiere di prima linea, presentato nel' 42 a De Gaulle; cioè l'idea di un gruppo di volontarie a cui fosse affidato il compito di assistere i soldati direttamente sul campo di battaglia, realizzando uno scopo umanitario da lei concepito come "una sfida clamorosa alla ferocia che il nemico ha scelto e che ci impone a nostra volta". Ovvero, misurarsi con la logica della forza nella sua espressione più totalizzante, la guerra, in modo da renderne per un verso evidente il meccanismo perverso che coinvolge tutti, e per l'altro richiamare ali' obbligo morale di farne un uso finalizzato alla pace. Ma Simone Weil non si è limitata al gesto esemplare; negli ultimi mesi di vita ha scritto un libro straordinario e per certi aspetti prossimo a quello di Bonhoeffer, La prima radice, al cui centro si trova la critica della nozione di diritto elaborata dalla nostra tradizione giuridica, una nozione legata a quella di forza, poiché la rivendicazione di un diritto ha senso e di fatto si realizza solo se sostenuto dalla forza necessaria a imporlo. A questa nozione essa vorrebbe sostituire quella di obbligo verso l'essere umano, cioè di riconoscimento reciproco dei bisogni fisici e morali dei componenti di una società. Non è difficile vedere quale nesso sotterraneo corra tra obbligo, riconoscimento, gratuità, e dunque dello spirito religioso che sostiene questa teoria politica. Dicevo di Etty Hillesum, di come sia morta ad Auschwitz, a ventinove anni. Ma i pochi scritti che ci ha lasciato, un Diario e delle lettere, non riguardano che in piccola parte l'esperienza del lager, in cui è stata internata solo negli ultimi mesi, e comunque non si tratta di Auschwitz, ma di un campo olandese, tappa di passaggio verso l'annullamento. In effetti ciò che colpisce innanzitutto in questi suoi scritti è il forte distacco dalla tragedia in corso, dalla guerra e dalla stessa persecuzione razziale, pur nella piena consa- ~evolezza di ciò che sta accadendo e nella ferma volontà di non sottrarsi ali' orrore della deportazione. Ciò che piuttosto occupa completamente questa giovane donna è la progressiva presa di coscienza dell'umanità che è in lei sotto l'enorme pressione degli eventi esterni; il compito che le appare prioritario è quello di "lavorare a se stessi" piuttosto che reagire direttamente agli eventi. Di qui, da questo atteggiamento interiore in cui si concretizza la consapevolezza di dover cambiare se stessi per cambiare il mondo, e questo senza minimamente separarsi dal contatto col mondo, subendone anzi totalmente la pressione, di qui mi sembra venga la grande lezione di Etty Hillesum, una lezione forse più ·grande di quella di Bonhoeffer e di Simone Weil; perché infine ciò che in lei è messo in gioco è la pura umanità, nella quale gli stessi termini di religione, morale, società, politica spariscono o si riducono a semplici nomi. Al loro posto troviamo lo sguardo, l'ascolto, il gesto. La guerra, il lager, i tedeschi, gli ebrei non sono altro che nomi in un orribile gioco delle parti in cui l'umanità di ciascuno è colpita e devastata; Dio stesso non è altro che un nàme per dire il punto profondo dell'umanità di ciascuno: "È vero, ci portiamo dentro proprio tutto, Dio e il cielo e l'inferno e la terra e la vita e la morte e i secoli, tanti secoli. Uno scenario, una rappresentazione mutevole delle circostanze esteriori. Ma abbiamo tutto in noi stessi e queste circostanze non possono essere mai così determinanti, perché esisteranno sempre delle circostanze - buone e cattive - che dovranno essere accettate, il che non impedì10 sce poi che uno si dedichi a migliorare quelle cattive. Però si deve sapere per quali motivi si lotta, e si deve cominciare da noi stessi, ogni giorno da capo". In queste parole, scelte tra molte altre simili, mi sembra si racchiuda la fede di Etty Hillesum, una fede per la quale le circostanze esteriori, dunque la realtà mondana, è trascesa in nome dell'umanità che ciascuno porta in sé; il desiderio di bene direbbe Simone Weil; la capacità di accettare tutta la realtà contingente e tutta la storia, di riconoscerla in sé nel bene e nel male, nella gioia e nella sventura, dice più concretamente Etty Hillesum: "So tutto, sono in grado di sopportare tutto, sempre meglio, e insieme sono certa che la vita è bellissima, degna di essere vissuta e ricca di significato. Malgrado tutto. Il che non vuol dire che uno sia sempre nello stato d'animo più elevato e pieno di fede. Si può essere stanchi come cani dopo aver fatto una lunga camminata o una lunga coda, ma anche questo fa parte della vita, e dentro di te e' è qualcosa che non ti abbandonerà mai più". Mi sembra che a questo "qualcosa" possiamo dare il nome di gratuità nel suo significato più alto, cioè la consapevolezza che tutto appartiene alla vita, anche il male, anche la sventura, anche la morte; una consapevolezza a cui solo lo strapotere dell'io fa velo; occorre andare al di là dell'io, perdere la prospettiva dell'io; dopodich~ tutto ciò che si compie è gratuito, è reale. Se al termine di questo tentativo mi è consentito proporre i termini per la questione gratuità e politica, direi così: è gratuito un agire che porti dentro di sé la consapevolezza della condizione umana, una consapevolezza in cui l'io sia ridotto a un punto e di conseguenza lo spirito di parte, anche quando si tratta della parte che subisce violenza, è vinto dalla volontà di relazione o di accettazione. Non si tratta di quietismo. Il rifiuto della forza significa essenzialmente superare la separazione, l'opposizione, la dualità verso un'unità in cui la contraddizione è assunta nella verità. E ancora: la gratuità è sperimentale, si dà solo in situazione; muove dalla consapevolezza di "aver ricevuto gratuitamente" l'umanità che è in ciascuno, il nostro bene supremo; e opera perché sia riconosciuta, rispettata, accresciuta. Per questo ogni atto gratuito è· immediatamente un atto politico, mediante il quale viene assunta su di sé la situazione dell'altro, fisica e morale, la sua domanda, muta o gridata, di bene, di giustizia, di libertà. Essa porta in sé una volontà radicale di cambiamento e la convinzione che questo si realizzerà immancabilmente, poiché l'aspirazione alla giu~tizia non è niente, ma se si è giusti la giustizia trionfa, comunque. Infine: solo un breve passo separa le situazioni particolari da quella storica in cui siamo immersi; bisogna cominciare a sperimentare la gratuità nelle prime: famiglia, amicizia, ogni tipo di rapporti interpersonali e con le creature della natura; si finirà col sentire su di sé il peso della situazione storica, si sarà costretti a prestare orecchio al suo bisogno di cambiamento. La situazione che ho qui portato ad esempio è quella tragica degli anni trenta e quaranta; certo, una situazione limite e già lontana dal sentire dei più, e che tuttavia è parte iqtegrante della nostra situazione, che nel frattempo si è fatta più umana solo in superficie, mentre al di sotto è proseguita l'opera di immiserimento e rinsecchimento della nostra umanità. In questa situazione ci sembra già molto che si dia per noi o per altri capacità di esercitare la gratuità caso per caso, momento per momento; e in effetti è moltissimo; la gioia, il senso di realtà che ne deriva è il principio st~sso del cambiamento. Ma poi bisogna sentire, nei limiti delle nostre forze ma potremmo essere costretti anche ad andare oltre, la situazione storica nel suo insieme, il suo dolore insopportabile, il suo "perché accade questo?"; sapendo che a questo grido si può rispondere solo ispirando alla gratuità l'azione politica.

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