IL CONTISTO Mettere l'accento sulla separatezza del ceto politico non significa dire che i politici non abbiano legami di massa. Ad ogni elezione il successo dei signori delle preferenze ce lo ricorda crudamente. Ma tale legame si fonda sempre di meno sulla comune appartenenza e sempre di più sulla differenza. È un vincolo di tipo feudale tra chi dispone delle risorse messe a disposizione da incarichi pubblici e chi è costretto ad accettarne la protezione, tra chi si fa baciare le mani e chi le bacia. Il rapporto clientelare può apparire bilaterale (come sostengono i fautori delle teoria del rispecchiamento), ma è in realtà fondato su un evidente squilibrio. Di per sé il ceto politico non è forse peggiore della società civile, ma probabilmente contribuisce a peggiorarla. È un mondo a parte che maniP..oladall'alto i bisogni sociali a scopo privato. Una versione particolare della teoria del rispecchiamento mette sotto accusa una componente specifica della società civile, anzi quella che viene spesso considerata come la sua espressione più significativa, ossia le imprese. La responsabilità ~ella corruzione - si dice- ricade prima di tutto sui corruttori. E interessante notare come questa tesi abbia trovato orecchie attente nella vecchia sinistra, in virtù delle potenzialità anticapitalistiche in essa contenute, e non senza una certa solidarietà verso un ceto politico che con tutti i suoi difetti continua a rappresentare le ragioni del pubblico nei confronti del privato. E tuttavia la questione se prevalgano i corruttori privati o i taglieggiatori pubblici non può essere risolta se non caso per caso. Si potrebbe se mai ipotizzare che la fitta rete di scambi tra i due mondi, quello politico e quello delle imprese, abbia finito per consolidare un complesso politico-affaristico, in cui la classica contrapposizione tra pubblico e privato ha ceduto il campo ad un'ampia zona grigia senza nette distinzioni di ruoli. La vera novità del caso milanese non consiste però nell'aver rivelato come un ceto politico agguerrito e indistinto si sia sostituito ai tradizionali partiti, ma nell'averne dimostrato l'intrinseca fragilità. L'ampiezza dello scandalo non è infatti stata determinata solo dall'ampiezza del fenomeno, ma soprattutto dal fatto che i protagonisti hanno parlato. Obiettivamente era difficile immaginarsi un crollo così repentino. Qualcuno ha giustamente osservato che questa circostanza esclude di assimilare la rete affaristica milanese alla mafia: i mafiosi infatti non parlano. Ma anche i funzionari dei partiti storici non avrebbero parlato. Il paradosso milanese sta nell'esistenza di una trama ampissima di relazioni illecite, in cui nessuno sembra in grado di premiare adeguatamente la fedeltà o di sanzionare il tradimento. Non ci sono più i vecchi partiti con le loro appartenenze ed i loro .sistemi di premi e sanzioni. E ~r fortuna) non c'è ancora la mafia con le sue ritorsioni mortali. E piuttosto un mondo popolato da battitori liberi che giocano in proprio e che possono uscire dal gioco sulla base di puri calcoli egoistici. I politici d'affari si sono liberati dai partiti o li hanno trasformati a propria immagine e somiglianza, ma così facendo hanno finito per segare il ramo sui cui stavano seduti. Non è un caso che il silenzio sia stato mantenuto soltanto da parte di un esponente della Fiat, ossia dell'unico partito leninista rimasto sulla scena in Italia. La teoria delle mani slegate L'ultima teoria che dobbiamo prendere in considerazione è quella che imputa la corruzione a difetti del disegno istituzionale. A differenza della polizia dei film con F__rancoNero che non può difendere i cittadini perché ha le mani legate, i politici - si afferma - non riescono a perseguire il bene comune per la ragione diametralmente opposta, ossia perché hanno le mani troppo libere. L'assenza di regole che aiutino a canalizzare le domande politiche in un gioco chiaro e prevedibile, fa sì che 6 ognuno sia costretto ad arrabattarsi, con i mezzi che ha a disposizione, pernon soccombere di fronte ad avversari altrettanto liberi e spregiudicati. Come Ulisse di fronte al canto delle sirene o come Vittorio Alfieri di fronte alle lusinghe della vita mondana, anche i politici vorrebbero essere legati da regole più salde che li difendessero da loro stessi. Finora tale rimedio non è stato messo in pratica, un po' perché i politici sembrano non possedere la stessa ferrea volontà di quegli illustri esempi, un po' perché non sanno bene quali corde e quali nodi usare. In certi casi si ha l'impressione che essi siano soprattutto preoccupati di legare i loro avversari più che se stessi e ciò genera un clima di comprensibile sospetto. Ciò nonostante la teoria delle mani slegate (o del deficit istituzionale) costituisce a tutt'oggi la spiegazione più generalmente condivisa dei fenomeni corruttivi, soprattutto per i risvolti propositivi che essa implica. Se la democrazia è un sistema di regole, è del tutto conforme ai principi cercare una risposta sul piano istituzionale. Essa ha infatti il vantaggio di non pretendere la virtù, ma di farla scaturire dalla necessità. Ma bisogna fare attenzione a non sbagliare bersaglio. Le proposte di riforma istituzionale attualmente in discussione immaginano tutte di dover imbrigliare un sistema basato sull'invadenza e l'arroganza dei partiti (la partitocrazia) al fine di ridurne la complessità e di favorire l'efficienza delle decisioni pubbliche. Ma è un 'analisi giusta? Le osservazioni fin qui svolte mostrano invece che le tradizionali strutture partitiche si stanno dissolvendo in una pluralità di cordate, mal distinguibili per gli stili d'azione politica praticati, ma in serrata competizione tra di loro. Una riforma elettorale potrebbe ridurre il numero dei partiti o addirittura dividere l'intero sistema politico in due soli blocchi (la "sinistra" e la "destra"), ma siamo sicuri che il numero dei centri reali di potere diminuirà anch'esso? E siamo sicuri che le differenze tra di essi saranno riconducibili a qualche forma di progetto politico e non solo a pure ragioni di potere? Alcune riforme potrebbero rivelarsi addirittura controproducenti. L'idea di eleggere i deputati in collegi uninominali è del tutto appropriata, se si pensa che che il problema principale è quello di diminuire il potere delle segreterie di partito e di restituire agli elettori la possibilità di scegliere direttamente le persone sulla base delle loro qualità. Ma se pensiamo che la politica sia ormai fatta più che dai partiti da singoli capi-cordata, sulla base di risorse personali, c'è il concreto pericolo che il nuovo sistema ne favorisca semplicemente l'ascesa e finisca per rafforzare le tendenze affaristiche già in corso. Che cosa accadrebbe se in un collegio fossimo chiamati a scegliere tra due boss la cui unica differenza consiste nel fatto di essere nominalmente affiliati a due partiti diversi, che solo per inerzia continuiamo a considerare di sinistra o di destra? Uno degli obiettivi fondamentali delle riforme istituzionali è quello di ridare efficienza alle decisioni pubbliche, attraverso il rafforzamento degli esecutivi, la loro sottrazione alle contrattazioni tra i partiti e la formazione di maggioranze stabili. Si tratta di preoccupazioni tutt'altro che irragionevoli. Ma la qualità delle decisioni dipende anche dalla qualità dei decisori, che appare fortemente compromessa dagli attuali meccanismi di selezione del personale politico. I meccanismi tradizionali premiavano la fedeltà e l'appartenenza. I meccanismi attualicom'è stato ampiamente dimostrjltO da una recente ricerca - premiano l'imprenditorialità dei rampanti, le cui principali risorse sono l 'arroganzae la capacità di gestire reti di "amicizia". È insomma necessario capire chi esattamente va legato e come. O, in altre parole, prendere atto del mutamento genetico che si è verificato dentro il nostro sistema politico. Altrimenti il vizio riuscirà a sottrarsi alla necessità e a riprodurre effetti perversi anche all'interno del nuovo contesto istituzionale.
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