Linea d'ombra - anno X - n. 73 - lug./ago. 1992

STORIE/LEWIS Non mi accontentavo affatto, però, di sfruttare la sua madre lingua, se così mi posso esprimere, in modo passivo. Volevo vederla in azione: starmene a guardare la corrente del castigliano macinare, ad esempio, una conversazione di carattere generale. Anche se lui ce la metteva tutta, la Pensione non lasciava speranze. Il terzo giorno però mi invitò al Caffè a sentirlo suonare dopo cena. Mangiavamo alla stessa ora, ma lui uscì prima di me. Quando ebbi finito, mi avviai con calma verso il Caffè, da solo. Il Caffè Palayo era l'unica istituzione della città veramente parigina. Si trattava dell'unico posto nel quale si recavano i madrileni e gli altri spagnoli veri e propri che risiedevano a Pontaisandra; entrai, scrutando con aria risoluta le pareti uniformemente coperte di specchi e il soffitto dorato. Trovai un posto adatto al mio scopo e mi dedicai allo studio della lingua. Durante una pausa, il direttore d'orchestra mi si avvicinò e mi presentò a un numeroso gruppo di persone, suoi amici. Fu semplice, in seguito, fare conoscenza con chiunque si trovasse nel Caffè. Non mi accosto agli spagnoli, in genere, con uno stato d'animo particolarmente romantico. Le persone che incontravo, per quanto degenerate, possedevano una lingua insieme antica e ammirevole. Spesso mi apparivano come alberi imputriditi in cui si era annidato uno sciame di parole dal mirabile potere evocativo. Come un allevatore di api, mi ero assunto il compito di trapiantare questo sciame errante in un alveare predisposto per l'occasione. Ogni lingua mi spiegava serenamente il mio professore, ha le sue usanze e le sue idiosincrasie, proprio come una specie di insetti; il suo piccolo universo di simboli e di parti del discorso deve essere studiato e maneggiato con cura. Soprattutto però è importante osservarne usanze e idiosincrasie, nonché toni e accenti che la accompagnano spontaneamente. Di materiale ora ne avevo a sufficienza. Quando il Caffè chiuse, tornai alla Pensione con Don Pedro, il direttore d'orchestra. Ogni sera dopo cena - e anche all'ora di pranzo - per tre o quattro giorni mi recai in quel locale. Di occasioni per imparare il castigliano ora ne avevo quante volevo. Il nemico americano, per il momento, era scomparso dalla mia mente. La quinta sera mi recai come al solito al Caffè e mi diressi verso il mio gruppo, composto dalle persone più intelligenti e a me più utili. Fu allora, mentre il cuore mi sobbalzava in petto, che vidi la sagoma rettangolare del mio onnipresente nemico, sistemato con aria diabolica in mezzo a loro, come se avesse intenzione di restarsene lì in eterno. Un operaio addetto a una macchina che scopre un pezzo di una sostanza sconosciuta proprio in mezzo agli ingranaggi - che similitudine potrei usare per esprimere il mio sgomento? Per riprendere la stessa immagine, come l'infelice operaio sarebbe corso a bloccare la macchina, così mi precipitai dai tanti con i quali nei giorni precedenti mi ero soffermato a chiacchierare. Svitavo e avvitavo ovunque, ma lamacchina era già diventata recalcitrante ai miei comandi. Non ha senso che ora rievochi minuziosamente i vari stadi attraverso i quali quella sera andai incontro alla sconfitta. Si trattò di una battaglia passiva e condotta sul piano etico, e non di una lotta che palesasse la natura segretamente amara e disperata delle passioni coinvolte. Ovviamente, il fatto che la battaglia riguardasse tante persone ebbe come conseguenza qualche scortesia. Il gelo 62 che gradualmente calò nei miei confronti in tutto il locale, l'ostilità che dilagò fra i gruppetti di bevitori a partire da quel centro di mistica ostilità, quello spirito che riconosceva in me qualcosa di polarmente lontano; la figura immobile del nuovissimo fra i figli dell'America, di tutti il più misterioso, che inequivocabilmente emetteva quelle possenti ondate con naturalezza, con la spontaneità di una sorgente: di tutto ciò, con enorme disappunto, mi resi conto fin dal momento in cui mi avvidi della sua ingombrante presenza. Sembrava quasi che si fosse tenuto lontano da quel ritrovo perché sapeva in anticipo cosa sarebbe avvenuto. Aveva atteso che mi sentissi tranquillo e a mio agio in modo da avere qualcosa di tangibile da colpire. O forse la sua assenza era stata del tutto casuale. Ancora una volta non riuscii a capire cosa avesse esattamente da dire su di me. Come a Bayonne, vidi solo la sua bocca in movimento e gli effetti sociali da essa provocati. Era davvero quanto di più sottile ed elettrico esistesse: rapido, penetrante e distruttivo. Forse la sua ingegnosità aveva escogitato qualcosa di malvagio - dire che ero una spia, per esempio - ma credo piuttosto che gettasse su di me casuali correnti di disapprovazione, folate pungenti e allusive di un odio persuasivo. Godeva indubbiamente di grande prestigio al Caffè Pelayo. In seguito lo avrei attribuito al suo ascendente in fatto di commercio, ma sono certo che era dovuto ancor di più al suo straordinario carattere - plasmato dalla forza sublime della sua illusione. La sua impenetrabile immobilità, la sua precaria padronanza di sé (considerando la persona in questione, nonché i suoi sentimenti nei miei confronti) erano ovviamente la flemma e il sangue freddo americano o anglosassone riflessi in questo brutale specchio umano, o da esso interpretati. Me ne andai dal caffè prima del solito, senza aspettare il direttore d'orchestra che rividi soltanto la mattina seguente a tavola. Aveva un'aria imbarazzata. Il suo sguardo si posava esitante su di me, affascinato e incuriosito. Gli era difficile pensare che il suo rispetto per me dovesse cessare e lasciare il posto ad un altro sentimento. "Conosce Monsieur de Valmore?", mi chiese. "Quella scimmietta francese, intende dire?" Sapevo che questa descrizione del mio mirabile nemico non era altro che volgare e stizzosa, ma ero troppo scoraggiato per entrare in maggiori dettagli. Le parole con cui mi riferii a Monsieur de Valmore, a parte la loro volgarità, parvero al direttore d'orchestra talmente eccentriche da farmi immediatamente perdere tutta la sua comprensione. Mi raccontò comunque ogni cosa sul suo conto; dettagli che non riguardavano minimamente ciò che realmente costituiva la sua vita. "È proprietario del Burgalésa e di molti altri alberghi di Pontaisandra. Anche di navi. Es Américano", aggiunse. Noie e fastidi di ogni genere resero a questo punto il mio soggiorno a Pontaisandra inutile e scoraggiante. Quando mi mettevo a tavola, generalmente Don Pedro aveva quasi finito di mangiare e allora fui costretto a chiudere, se così posso esprimermi, la mia miniera. Non c'era più niente da estrarre ormai solo scortesi monosillabi. Tutti gli altri ospiti della Pensione si mostravano cupi e inaccessibili. Tornai nuovamente al Caffè Pelayo ma

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