confuso, più o meno come lo sarebbe stato un grosso baule americano sulle spalle di un fattorino sudato. Infine arrivò sano e salvo nella hall. Lo seguii a un paio di metri di distanza. Si fermò per accendere un sigaro, sempre occupando uno spazio esagerato. Lo aggirai abilmente e guadagnai una delle porte che conducevano nella salle à manger. Quando però entrai nel suo campo visivo, ebbi l'improvvisa certezza che per questo uomo sandwich, cittadino delle terre occidentali, la mia presenza in quell'albergo non costituisse affatto una sorpresa. Il suo occhio iniettato di sangue si posò su di me con spietata indignazione, uno sguardo fiammeggiante e come cristallizzato in seguito all'episodio di Bayonne. Nell'insieme però appariva così inerte e fiacco da sembrare un fantasma rispetto alla sua incarnazione precedente: e in tutti i nostri successivi incontri, la sensazione di avere a che fare con un fantasma, pur se particolarmente maligno, perdurò. Se già l'irritazione per il tiro che mi avevano giocato mi aveva suggerito un repentino mutamento d'alloggio, ora la mia ansia di lasciare quel posto riceveva ovviamente un notevole incentivo. Dopo cena, mi feci coraggio e uscii in cerca del mio mirabile nemico americano. Per vie traverse, ma senza dubbio alcuno, era stato lui a farmi relegare nel ripostiglio vicino alla cucina. Una cella sotterranea non sarebbe stata peggio per me e se avessi saputo, come appresi in seguito, che il proprietario dell'albergo era proprio lui, l'analogia con il medioevo si sarebbe fatta ancor più realistica. Ormai ero prigioniero nel suo castello. Lo trovai seduto nell'atrio, in sinistri conversari con quello che ritenevo essere il proprietario o il direttore. Mentre mi avvicinavo, si volgeva impercettibilmente altrove, con una truce indifferenza che dipendeva dal tentativo di mantenere i nervi saldi. Chiaramente, non era ancora il momento di agire. Non mostrò affatto di non avermi riconosciuto. Come se la nostra conversazione al Fonda del Mundo si fosse svolta solo mezz'ora prima, nessuno di noi si comportò come se fosse trascorso del tempo da allora. L'unica cosa che sembrava mutata era la scena che ci circondava. "Allora, colonnello", dissi apostrofandolo con un'espressione tipicamente americana, "prendiamo il fresco?" Continuò a fumare. "È proprio una bella cittadina, questa". "Vous vous plaisez ici, monsieur? C'est bien!" mi rispose in francese, come se non fossi neppure degno di udire il suo accento americano e, se proprio doveva comunicare con me, il francese poteva bastare. "Mi fermerò per qualche settimana", dissi in tono di benevola sfida. "Qui?" "Ma non in questo albergo". Balzò in piedi con uno sguardo che ricordava quello di Bayonne. "Al posto suo qui non ci rimarrei. Forse questo albergo non risulterebbe di suo gradimento", disse con impeto nella sua lingua madre. Si allontanò rapidamente, come la polvere da sparo si allontanerebbe dalla miccia se, per un qualsiasi motivo, avesse deciso di non voler più esplodere. Per quel giorno non lo vidi più. La cella al primo piano, pur se meno orribile dell'altra, sarebbe stata lo scenario ideale per un STORIE/LEWIS omicidio, considerando lo spesso strato dei vestiti. Nessun rumore avrebbe potuto penetrare le montagne di lana e le grosse pareti spagnole che mi racchiudevano. Il mattino seguente, comunque, ero ancora vivo. Feci colazione e mi misi alla ricerca di un nuovo alloggio. Il mio occhio esercitato verificò in breve l'inconsistenza di quasi tutte le Pensioni della città. C'era un posticino nella Calle Real che sembrava fare al caso mio, e decisi di fermarmi lì per un po'. Anche questa camera non era altro che un ripostiglio, ma almeno per esseri umani e non per abiti. Si trattava di una delle quattro stanze che si aprivano sulla sala da pranzo. La porta della mia camera si trovava proprio a fianco del mio posto a tavola - mi bastava scendere dal letto dalla parte giusta, fare due passi ed ero pronto per il caffè del mattino. Portare fuori i bagagli dal Burgalésa fu abbastanza semplice, a parte il conto enorme che mi fecero pagare. Protestai per un po' con il direttore, ma lui continuava a sorridere: "Sono le nostre tariffe!" Si strinse nelle spalle, lasciò cadere la cosa e sorrise distrattamente quando rinnovai le mie lamentele. Come a Bayonne, al mattino non c'era traccia del nemico. Ma avevo la sensazione che l'avrei rivisto. Quella sera per la prima volta incontrai i miei nuovi compagni. Avevo scelto quel posto anche perché mi sembrava probabile che gli ospiti dell'albergo parlassero castigliano e la cosa mi sarebbe stata utile. Quasi nessuno di loro, comunque, era di lingua gallega. Le persone che parlano il gallego sono come i bretoni in Francia, e tutti gli altri spagnoli si divertono moltissimo per il modo in cui si esprimono. La mia presenza non suscitò alcuno scompiglio. Come un sasso che cade in uno stagno immobile da tempo e coperto di uno strato opaco di marciume verdastro, e scende lentamente fin sul fondo lasciando un buco dai contorni netti in superficie, così io presi posto in fondo al tavolo. Ma come lo stagno emana il suo caratteristico odore per questa intromissione, così imiei compagni rivelarono qualcosa delle loro personalità nel giro di pochi minuti, in un modo immobile e fallace. Sembrava che avessero sempre vissuto in quella Pensione, e che fossero insieme da tempo immemorabile. Il mio vicino, comunque, si preannunciava un piccolo El Dorado di spagnolo, una piccola miniera di pettegolezzi e regole grammaticali lietissima di distribuire le sue ricchezze. Gli lanciai immediatamente il penetrante dardo della mia amicizia e iniziai senza indugi a darmi da fare. Veniva da Madrid, e dunque era un minerale da almeno trenta carati, castigliano allo stato puro e con tutte le sue "H". Io lo ricambiavo con delle inezie. Conosceva diverse frasette in francese e in inglese, "permette" e "bella giornata"; io mi limitavo ad annuire. Ogni giorno me le ripeteva titubante e io approvavo: "benissimo", "ottima pronuncia". Era un omone barbuto, direttore d'orchestra del Caffè principale della città. Durante i pasti, i suoi polsini grandi come tovaglioli erano posati ai due lati del piatto. Da essi, senza disturbarli affatto, emergevano le mani che gli forni vano del cibo, nei limiti delle loro possibilità. Doveva però tenere la bocca vicinissima al piatto perché i polsini non si muovevano di un solo millimetro. Per certi versi questo mi disturbava perché soffocava un po' il fluire continuo del suo spagnolo e a volte provocava perfino uno spreco considerevole. Un paio di volte tentai di spostare i polsini verso di me e allontanarli dal piatto, ma senza successo. La loro influenza su di lui e la loro indolenza erano assolute. 61
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