Linea d'ombra - anno X - n. 73 - lug./ago. 1992

STORIE/LEWIS molto zelo i loro prezzi. Ne scelsi uno che aveva dichiarato una cifra, vitto e alloggio tutto compreso, che poteva nascere solo dalla frenesia della concorrenza. Inoltre il nome dell'albergo mi sembrava quello che la patrona mi aveva raccomandato a Bayonne. Non avevo ancora imparato a collegare Burgalésa con Burgos; era la prima volta che mi fermavo in Spagna per un certo periodo. Salii su un taxi e vi rimasi seduto, all'uscita della stazione, aspettando l'uomo dell'albergo che era andato a prendere il grosso dei bagagli. Vidi allora gli emissari degli alberghi uscire fuori uno dopo l'altro dalla stazione; la furia da loro manifestata qualche minuto prima era in netto contrasto con l'attuale, languida calma. Dichiarandosi cortesemente a mia disposizione, mi porsero tranquillamente i biglietti dei loro alberghi aggiungendo che avrei certamente compreso l'errore commesso. Avvertii allora, in modo vago, una stretta della macchina del Destino - una certa inquietudine, un senso di estraneamento nel corso e nella successione di fatti e sensazioni, come il tremolio di un autobus decrepito che sta per ripartire. L'interludio era terminato. Dopo una lunga attesa, il procacciatore dell'albergo tornò e ce ne andammo. I miei timori erano di ordine pratico. Il prezzo che mi era stato detto era molto basso, forse troppo. Ma in altre occasioni mi era sembrata un'ottima strategia fermarmi in un hotel modico e pagare un paio di pesetas in più al giorno per gli "extra". Il mio palato era talmente tradizionalista che avevo compreso come in ogni caso il vitto che mediamente potevo sopportare superava di gran lungo il tipico menu spagnolo. Gli extra danno piena soddisfazione. Si ha sempre la sensazione che chi mette le mani sugli extra li cucini con cura, e che non si tratta mai di cibo di seconda scelta. Mi sarebbe piaciuto vivere di extra - un'esistenza privilegiata: e gli extra sono più o meno identici ovunque. Ripresi sicurezza. Il tassista e il tipo dell'albergo discutevano di qualcosa che era successo in città. Nel frattempo però ci addentravamo sempre più in un quartiere squallido e misero. I miei dubbi ripresero forza. Chiesi al dipendente del Burgalésa se era certo che il posto era pulito e confortevole. Res)?inse il mio sguardo dubbioso con un gesto pieno di promesse. "E un posto splendido! Aspetti e vedrà, ancora poco e ci siamo", aggiunse. All'improvviso finimmo in una strada larga e imponente; su un lato c'era un giardino pubblico, "El Paseo", che come scoprii in seguito era la passeggiata. Mentre guardavo oziosamente un edificio bianco e lussuoso davanti al quale si era fermato un autobus, con mia somma sorpresa mi accorsi che anche il nostro autista si stava dirigendo davanti allo stesso portone. Pochi minuti più tardi, ancora incredulo per quanto vedevano i miei occhi, scesi dalla macchina ed entrai nel palazzo, notando di sfuggita che sulla fiancata dell'autobus c'era scritto "Burgalésa". Mentre seguivo il mio uomo intravidi un tavolo sontuosamente apparecchiato, con tovaglioli che sembravano opere d'arte e che uno degli splendidi ospiti dell'istituzione (non dovevo esserci anch'io fra loro?) era altezzosamente sul punto di distruggere per pulirsi la bocca - tavoli che gemevano sotto il peso di cesti dorati, traboccanti di una gran varietà di frutta scelta. Giungemmo intanto a un lungo corridoio, rivestito di pannelli scuri, alla fine del quale potevo vedere diversi uomini con cappelli bianchi in testa, che lanciavano grida disumane e intanto arrotavano coltelli, mentre certe donne 60 rispondevano strillando e sbattendo piatti: una cucina - la più diabolicamente rumorosa e maleodorante a cui mi fossi mai avvicinato. Ci dirigevamo verso di essa. L'avremmo dovuta attraversare? Ci fermammo proprio sulla soglia e aprendo una porta che si mimetizzava con i pannelli della parete, il facchino scomparve con il mio baule, riapparve senza di esso e si allontanò in fretta. In quell'attimo il mio occhio colse qualcos'altro, una porta socchiusa sull'altro lato del corridoio e un grosso tavolo di legno senza tovaglia, con su diversi pezzi quadrati di pane e un paio di forchette. In Spagna esiste un pane per i ricchi e un pane secco ed estremamente sgradevole, quasi cartaceo, per i poveri. Il pane sul tavolo apparteneva a quest'ultima categoria, molto più simile alla carta di quello che mi avevano dato a Bayonne. D'un tratto la verità mi balenò davanti agli occhi. Con gesto teatrale, spalancai il pannello ed entrai in quell'oscurità totale. Accesi un fiammifero. Era un ripostiglio, con una minuscola finestra e spazio appena sufficiente per un lettino; in quanto al mio bagaglio, c'ero sopra. Certamente nella stanza dall'altro lato del corridoio mi avrebbero offerto zuppa di merluzzo, permanganato di potassio e pane artificiale. Poi, sfatto dal viaggio, mi sarei trascinato nel mio tugurio, mentre il pandemonio incucina avrebbe continuato a riecheggiare nelle mie orecchie per diverse ore. Nel salone trovai il sorridente proprietario dell'albergo. Sembrava considerare i suoi clienti come una sorta di scherzo garbato, e quelli fra loro che dormivano nel ripostiglio come uno scherzo particolarmente riuscito ma di dubbio gusto. Gli feci presente che avrei pagato la normale tariffa per un giorno a pensione completa, ma dovevo assolutamente cambiare stanza. Un cameriere si assunse la responsabilità di farmi assegnare un'altra camera. Il proprietario si allontanò lentamente, con i suoi favoriti color ghisa che gli conferivano, come d'obbligo, un'aria rispettabile, lanciando uno sguardo di soppiatto al suo complice. Fui trasferito da un ripostiglio a un altro, o meglio da un ripostiglio a un guardaroba - ridotto quasi alla metà delle sue normali dimensioni da uno spesso strato di gonne e mantelli, una ventina, impilati gli uni sopra gli altri, che sporgevano da tutte e quattro le pareti. Il piccolo spazio vuoto al centro forniva quasi un mezzo metro quadrato per lavarsi e vestirsi, e forse anche di più per dormire. Inoltre era al primo piano. Un quarto d'ora più tardi, mentre vagavo lungo un corridoio oscuro diretto verso il salone dell'albergo, una porta si spalancò con violenza e vigore inusitati, tanto che trasalii e alzai lo sguardo: una tozza sagoma rettangolare, dalle dimensioni di un grosso tronco squadrato, balzò fuori proprio davanti a me. Ci misi un po' di tempo prima di riconoscere quella figura nel suo insieme - dapprima, con un brivido freddo, riconobbi i capelli protesi verso l'alto; poi, con un sobbalzo, riconobbi il cappello che teneva in mano; infine, ritraendomi istintivamente, compresi che avevo già visto quelle spalle piatte, tradizionali, pseudoamericane. Con un fremito assoluto di emozione, ricortobbi allora tutto l'insieme. Si trattava proprio della sagoma inesorabile dell'uomo con cui avevo cenato al Fonda del Munda. Si avviò davanti a me con circospetta rigidità, senza dare segno di avermi riconosciuto. Girava gli angoli con difficoltà e ogni qualvolta giungeva in fondo a una parete, una sbandata improvvisa gli faceva cambiare di colpo direzione. Sulle scale apparve

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==