come la vittoria non fosse stata delle più facili. Al pari delle sue maniche rimboccate, sembrava dimostrare rispetto per il nemico. Il suo cappello di paglia fungeva in realtà da pesante aureola color caffè - simile a quella che un pittore fiorentino browninghesco, rovinato dall'alcool, avrebbe potuto dipingere dietro la testa di un santo. Al di sopra della fronte segnata dalle vene e scottata dal sole partiva all'improvviso una voluta dai contorni irregolari di capelli neri e secchi; sul suo volto aleggiava l'espressione stizzita del lupo, tipica del Meridione sudicio e venale. Era un viso che certamente possedeva del temperamento, ma era stato modellato, fin nelle sue parti più insignificanti, in modo minuzioso e insieme impreciso, da un centinaio di colpetti di cesello di una passione insoddisfatta. La barba cresceva liberamente, senza forma né simmetria. Eppure, non so dire dove, si percepiva un'apertura, un senso di ampiezza insolita e sconcertante. Si finiva con l'attribuirla a quell'assenza di espressione di cui ho detto. Questa sorta di intensità assente stava a indicare la probabile esistenza di una vera passione, del sublime (e io stavo per risvegliare proprio questa componente sublime, che mi avrebbe dato un'opportunità eccellente di studio). Era vestito in modo vistoso e cupo. L'abito scuro color violaardesia a sottili righe cremisi, la fascia rosso scura del cappello, la cravatta color rosa camoscio brulicante di lucciole cerulee, il panciotto con fiori stampati qua e là, senza un ordine preciso, davano l'impressione che il suo amore per l'eccesso e per lo sfarzo avesse cercato di imporsi un po' ovunque e dappertutto fosse stato domato. Ma da cosa? Ecco il segreto essenziale racchiuso in tutti quegli aspetti della sua personalità, segreto che sarebbe stato successivamente rivelato dal suo comportamento. Con una facoltà di giudizio più acuta, avrei potuto capire che tipo d'uomo era dal taglio degli abiti e dalla loro ampiezza spropositata, dalle spalle irregolari e dalle cosce gonfie. Non era un commesso viaggiatore, di questo ero certo. Per quanto ne sapevo, veniva dal nulla. Basandomi sul suo aspetto, respinsi una dopo l'altra le possibilità che si trattasse di un piccolo proprietario di vigne, di un commerciante di automobili e di un rentier. Tutto in lui, l'isolamento, la padronanza di sé, l'appetito tenace, era parte integrante del mistero di quell'albergo. Nel frattempo i suoi piccoli occhi infossati mi fissavano impassibili, vacui come due dischi di metallo. "La settimana scorsa mi trovavo a Parigi", annunciò improvvisamente. "Non mi piace Parigi. Perché dovrebbe piacermi?" Qualcosa bolle in pentola, pensai. Aveva avuto una buona idea. Probabilmente mi aveva preso per un parigino. "Pensano di essere sempre aggiornati. Vada alla Station Depòt e provi a ritirare un pacco proveniente dall'estero. Calcoli soltanto quante ore dovrà passare là dentro correndo da un impiegato all'altro prima che glielo consegnino! Poi vada in un bar e ordini da bere! -Lei è di Parigi?" Mi rivolse questa domanda senza mutare tono di voce, anche se l'espressione assente si faceva un po' più intensa. "No, sono inglese", risposi. Mi guardò fisso. Evidentemente, in un primo momento pensò che stessi mentendo. Poi tutt'a un tratto sembrò accettare la mia risposta senza metterla in dubbio. La sua diffidenza e la sua creduloneria parevano un blocco unico costituito dallo stesso materiale, oppure le due facce della stessa moneta. In mezzo non STORII/LEWIS vi sarebbe passato neanche un capello. Non erano due cose, ma una sola. Trascorsero parecchi minuti nel silenzio più glaciale. Neanche un batter di ciglia. Ogni variazione in lui si era prodotta all'interno di quel blocco unico costituito dalla sua espressione assente, compatta ed uniforme. A un certo punto ci si accorgeva che qualcosa era cambiato; eppure, a vederlo, sembrava che nulla mutasse. Con mia somma sorpresa, mi rivolse la parola nella mia lingua. Quasi sicuramente, da quando costui ne era padrone, aveva attraversato l'Atlantico almeno una volta; era chiaro, non l'aveva ereditata ma se l'era conquistata col sudore della fronte. "Ah, lei è inglese? È bella giornata!" Un'altra volta! E come prima, aveva iniziato col il tempo. Questa volta però non lo contraddissi. Le mie opinioni sul tempo non erano affatto cambiate. Abbandonai comunque, non so per quale ragione, il mio bisbetico atteggiamento. "Sì", concordai. Ci guardammo dubbiosi. Non aveva dimenticato la mia scortesia, e anch'io me la ricordavo bene. Tornò silenzioso. Evidentemente si stava chiedendo pigramente che significato potesse avere il mio voltafaccia. Immagino che i miei mutamenti si presentassero nello stesso modo tranquillo e uniforme dei suoi. Ora però qualcosa in lui stava cambiando. Lo sentivo e al tempo stesso lo vedevo. Pensai che la mia debole ritrattazione non aveva avuto successo. Ricordando l'ostinazione con la quale cinque minuti prima l'aveva ferito, fu preso da un forte risentimento che penetrando in lui, sembrava gonfiarlo tutto. Osservai l'azione del risentimento. Avevo l'impressione che i due lati sconnessi di quel corpo disordinato si fossero contratti, mentre gli occhi rimpicciolivano fino a socchiudersi. Proseguì, allora, quasi minacciosamente - in modo grave, diretto e immutato, come per controllare se fosse rimasta ancora in me qualche traccia di resistenza che potesse riaccendersi sotto le sue parole sprezzanti. "Scommetto che sarà bellissimo e durerà anche. Un amico mio, che è capitano di una nave, è partito per Bilbao stamattina e mi ha detto che il mare se ne stava ad aspettare lui là fuori ed era straordinariamente buono e per tutta la traversata sarebbe rimasto così. Se non lo sa un capitano, chi può saperlo? Loro ne sanno un sacco sul tempo, è un po' il loro mestiere, no?" Evidentemente, la possibilità di esprimersi con l'accento newyorchese destava nel suo animo un'emozione che nemmeno un francese avrebbe suscitato. La sua strana espressione vuota era sparita trascinando con sé il suo atteggiamento distaccato, anzi, si era risvegliata, se si può così descrivere un tale fenomeno. Ora mi guardava con occhi svegli, in modo freddo, critico, fisso. Erano occhi sfaccettati - gli occhi dei quarantotto stati della Confederazione. Pensando certamente di avermi vessato a sufficienza, si mise a parlare di Parigi, né più né meno come aveva fatto in francese. L'unica cosa che aveva conservato intatta dal punto di vista linguistico dopo aver lasciato gli Stati Uniti era un accento americano di una perfezione quasi spaventosa. Qualunque parola o espressione conoscesse, fosse pure in forma abbreviata, possedeva un andamento colloquiale e dava l'idea di essere esatta e appropriata. Parlava inglese con una sfrontatezza avventata della 55
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