CONFRONTI Il profilo sul quale possiamo agire consapevolmente, da esseri razionali, è quello della nostra identità professionale. Quando ci guardiamo attorno e confrontiamo il nostro mestiere con le tecnologie del tempo, o quando confrontiamo le nostre piccole cerchie di spettatori con i pubblici dei mass media, ci sentiamo arcaici. Il teatro ci appare come le vestigia di un'altra epoca. Se poi confrontiamo queste vestigia così come sono con l'immagine di ciò che furono, lo sgomento aumenta. Il rituale è vuoto. Che cosa vuol dire "rituale vuoto"? Che è insensato, caratterizzato dalla mancanza di valori, qualcosa di degradato? Il vuoto è assenza. Ma anche potenzialità. Può essere l'acqua morta della palude. Oppure l'immobilità del lago profondo da cui emergono segni di vita inattesa. Nel brodo delle culture, dove i vecchi confini scricchiolano rompendosi o sclerotizzandosi, il teatro non è il rituale di un popolo. Può divenire il popolo del rituale. Non può essere isolato. Ma può essere un'isola. Ogni teatro è inglobato in un contesto storico e culturale da cui non sfugge. Può avere, però, una sua differenza, una sua energia che gli permette di tradurre a suo modo, reinventandolo e persino invertendolo, lo stampo del mondo che lo ingloba. Potremmo dire che nel teatro può preservarsi il seme della rivolta, del rifiuto, dell'opposizione. Ma con parole meno pompose basta ricordare il vecchio precetto: il teatro deve essere uno specchio. Ma lo specchio non è solo lo spettacolo. Lo specchio è .............................................. N O V I T À 36 l'intera isola: gli uomini e le donne che la coltivano, le loro relazioni, la loro audacia. Lo ricordava qualche anno fa J an Kott, parlando di uno dei recenti rivolgimenti politici europei e del teatro: lo specchio riproduce, però inverte. Ciò che fuori sta a destra, nello specchio diventa sinistra. Il mondo può essere rovesciato. Per realizzare questa possibilità occorre conoscere la via per non identificarsi totalmente con il presente. Nel giugno scorso ti ho scritto poche righe sul disagio o piuttosto sullo stupore che provai a Bellagio, quando ci radunammo intorno al tema del teatro e dell'interculturalismo. Le case volanti, che mi sono costruito assieme ai miei compagni e assieme alla gente dell 'IST A, sono abitate da antenati, da presenze invisibili ma concrete. Ogni volta che si pone un problema, che vi è un passo difficile da superare, una situazione nuova da decifrare, il pensiero corre a come si comportò Brecht, a quel che disse Artaud, a quel che fecero gli attori nell'età del Rinascimento e delle guerre di religione. Vola ad Opole o a Mosca, presso Stanislavskij ... È vero: quelli erano altri tempi. Ma anche i nostri sono "altri tempi" se li paragoniamo ai tempi ai quali aspiriamo. A Bellagio mi parve che non vi fossero antenati e che non esistesse altro che l'orizzonte di questo tempo: il tempo orizzontale. Mi sentii paradossalmente vicino allo sconcertante trixter Masao Yamaguchi, professore stimatissimo all'università di Tokyo. Ritrovavo in lui la mia stessa tendenza: inte1TOgare la storia, ascoltare i predecessori. Mi sentivo marginale rispetto agli altri partecipanti, capaci di affrontare i problemi restando sempre nell'attualità. L'attualità è complessa e contradditoria. È enigmatica. Quando affondiamo lo sguardo in essa rischiamo di non poterlo ritrarre indietro, persi e affascinati dal labirinto di tutto ciò che va visto, che va considerato, che va soppesato. Il tempo e le generazioni non hanno ancora eroso il labirinto fino a dargli il profilo d'un paesaggio. Ci invischiamo per capire, condannare, cambiare la landa del nostro presente. Non c'è mai un momento per alzare lo sguardo. Così ci addomestichiamo allo spirito dei tempi. Quando ero a Opole, Ludwik Flaszen mi raccontava spesso una storia. Me la raccontava, per esempio, ogni qual volta mi indignavo con troppa foga. Non si è capaci di distogliere gli occhi da ciò che si odia, così come non li si può distoglier~ da ciò che ci innamora. Benvenuto Cellini racconta che vagheggiava il · suo mortale nemico (che poi uccise) e lo "mangiava con gli occhi" per le vie di Roma, come un giovane perdutamente innamorato d'una bella ragazza. Ma non era la storia di Cellini quella che Flaszen mi raccontava. Era la storia d'una testa ed' un muro. Un muro sbarrava la strada ad un uomo. Questi vi si buttò contro a capo fitto, deciso a sfondarlo. Si ferì la testa, ma continuò. Provò e riprovò. Non vedeva più nulla se non il rosso della sua rabbia e del suo dolore. La testa continuava a colpire. A colpire. A colpire. Poi non incontrò più resistenza. La testa era divenuta il muro. Il passato non sta dietro le nostre spalle. Sta sopra di noi. È ciò che rimane della dimensione verticale. La storia, quel che il passato racconta, può essere il magazzino dell'antico. È invece il magazzino del nuovo, l'inventario del possibile. Ci fa intravedere il mondo (il teatro) così come potrebbe essere. Di questo fitto dialogo con ciò che fu diverso si nutre la nostra scontentezza per il presente. È questa scontentezza che chiamiamo "vita spirituale". I veri interlocutori diversi, Richard, sono i morti. Non i macabri, ma i presenti invisibili. L'interculturalismo che più mi sfida è quello verticale.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==