Linea d'ombra - anno X - n. 73 - lug./ago. 1992

CONFRONTI l'importante è trovare il contesto adatto alla propria autodefinizione professionale. Bergamo, si dice, è la patria di Arlecchino, che è divenuto il simbolo universale della fantasia e dell'anarchia del teatro e che probabilmente è stato inventato in Francia quattro o cinquecent'anni fa. Nel teatro e nella cultura non esiste il genius loci. Tutto viaggia sciogliendosi dal proprio contesto di origine e trapiantandosi. Non esistono tradizioni legate indissolubilmente ad una determinata geografia, ad una determinata lingua, ad una determinata professione. Quel che è accaduto in questa settimana è per me e i miei compagni dell'Odin Teatret qualcosa di profondamente nuovo. Ma rievoca per i meno giovani di noi sapori che già conosciamo. Qualcosa di simile, la sensazione di una metamorfosi che si sta compiendo e che ancora non sappiamo nominare, provammo 15 anni fa, quando dopo aver fatto spettacoli per 10 anni nel chiuso di una sala per poche decine di spettatori, ci buttammo nelle strade e nelle piazze dei paesi del Sud d'Italia. E poi da lì andammo in giro in molte regioni del pianeta, barattando teatro. Stavo per dire: andammo in luoghi centrali e in luoghi sperduti. Ma dovunque pianti la punta del compasso, lì è il centro. Ora abbiamo fatto un viaggio nella nostra casa. I veri viaggiatori conoscono bene questa esperienza: il mondo sconosciuto lo si scopre quando si torna. Domani gli attori dell'Odin Teatret partiranno per una nuova tournée: a Copenaghen. Non è essenzialmente diversa da una tournée in Polonia o in Brasile. Porta altrettanto vicino ed altrettanto lontano. Questa sera, tutti noi che abbiamo lavorato per il Festuge ci siamo radunati nella sala del nostro teatro per il banchetto di addio. In queste situazioni, tra uomini e donne della nostra professione mi sento a casa, non importa in quale parte del mondo. Anche tu lo notavi nel tuo scritto Magnitudes of Performance: attori di culture lontane si incontrano e si sentono tra loro più simili di quanto non lo siano con i loro concittadini. C'è il teatro nell'interculturalismo. E c'è l'interculturalismo nel teatro. * * * Caro Richard, non riesco a interessarmi ai problemi che riguardano in generale i destini del teatro. Se penso in termini generali al mondo che mi circonda, sono ben altri i destini che mi incuriosiscono o mi spaventano. Quando dico "il teatro" penso ai miei attori e a poche decine (forse un centinaio) di altre persone che vivono qua e là per l'Europa, per l'Asia, nelle Americhe. Persone con le quali condivido la necessità di resistere alla corrente del tempo in cui viviamo. Sono sicuro che non mi considererai un egoista né un isolazionista. Tutto dipende dagli inizi. lo non provengo dal teatro, né dagli ambienti artistici e intellettuali. Provengo da una scuola militare italiana, da un'officina norvegese, da alcune petroliere scandinave, dalla Polonia post-staliniana. E poi dall'isolamento in un rifugio antiatomico di Oslo e in una ex-stalla per i maiali ad Holstebro, dove quello che facevamo, nei primi anni, non aveva il diritto di chiamarsi "teatro". Questo era ciò che molti ci dicevano. Non voglio una patria costituita da una nazione o da una città. Non ci credo. Eppure ho bisogno di una patria. Questo, in parole semplici, è il perché del mio fare teatro. Mi ripeto la domanda che si poneva Jean Améry, uno dei grandi senza terra del nostro tempo: "Di quanta patria ha bisogno un uomo?". Ho avuto fortuna: la mia patria si è ingrandita. Non è fatta di terra, di geografia. È fatta di storia, di persone. Spesso, quando si parla, si usano delle generalizzazioni che servono per abbreviare il discorso. Così, a volte, parlo del mio interesse per il teatro indiano, dell'apporto che la danza Odissi ha dato all'International School ofTheatre Anthropology. In realtà non collaboro con la danza Odissi, né con il teatro indiano, ma con SanjuktaPanigrahi e la sento una compatriota, così come, trent'anni fa, mi riconoscevo in quei bambini del Kalamandalam di Cherutturuthy, che la mattina, prima dell'alba, bruciavano dell'incenso davanti alla fotografia del fondatore della scuola. Alcuni di quei bambini li ho rivisti uomini maturi ed attori affermati. Loro si ricordano di me, io di loro com'erano trent'anni fa, gracili, con un sorriso un po' discolo e un po' melanconico e i grandi occhi esercitati dal Kathakali. Perché non dovrei pensare che siamo concittadini? Sanjukta non è "un'indiana": è Sanjukta. Dopo tanti anni che lavoriamo insieme mi riesce molto difficile ricordare che lei è un'indiana. Così come lei solo raramente, quasi in un soprassalto, ricorda che io sono "un europeo". Che cos'è questo? Interculturalismo? Umanesimo? Cultura del lavoro? Non è amore dell'altro. È bisogno di conoscere me stesso. Una notte, a Bellagio, ti chiesi la tua definizione di inter.culturalismo. Mi rispondesti che non ti interessava definirlo, che preferivi che restasse un campo gravitazionale, una prospettiva aperta, un buco nero. Mentre dicevi questo, sorridevi. È a quel sorriso che ora mi rivolgo. Lasciamo perdere le nozioni fabbricate in cattedra: interculturalismo, transculturalismo, intraculturalismo ... Non c'è niente di caldo né di gelido in tutto questo. Solo il tepore delle discussioni in tempo di benessere. Gli dèi se ne sono andati. Noi siamo vascelli senza più equipaggio, vascelli ebbri portati da correnti oscure. Eppure ho un credo: solo misurandomi con gli altri posso dare un senso alla rotta, incontrare la mia identità. A me interessa una specifica prospettiva interculturale: indagare il livello pre-espressivo del comportamento dell'attore. Tu a volte partecipi di questo mio interesse. Affermi che il biologo in te è d'accordo, ma che il politico in te rifiuta. A volte condividi con me la scoperta di questa terra comune di cui si nutrono le radici delle diverse pratiche d'attori. Altre volte scuoti la testa ribadendo la preminenza dei tuoi studi preferiti, rivolti alla descrizione delle interazioni sociali. È al livello "biologico" dell'attore, nel territorio degli impulsi e dei contro-impulsi, dei sats, della partitura fisica e vocale che la mia ricerca individuale, le mie individuali necessità, hanno potuto farsi politiche, intrecciandosi con quelle altrettanto profonde e incomunicabili di coloro che sono divenuti i miei compagni. Solo imparando a navigare queste acque, in superficie fredde, loro sono divenuti i "miei" attori ed io il "loro" regista. E insieme abbiamo agito, cambiando qualcosa intorno a noi. Ciò che più vale, in ciascuno di noi, non può entrare in contatto con l'altro per via diretta. Le interiorità non comunicano. Non è la tecnica che mi interessa. Ma per raggiungere quel che più mi interessa debbo concentrarmi su problemi tecnici essenziali. Ciò che cerco sta sull'altra sponda del fiume. Per questo mi occupo di canoe. Al centro di ogni nostro discorso, quando parliamo di cultura, cioè di relazioni vi è il tema dell'identità. La nostra identità etnica è stabilita dalla storia. Non siamo noi a modellarla. L'identità personale, ciascuno di noi se la costruisce da sé, ma a sua insaputa. La chiamiamo "destino". 35

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