CONFRONTI Il popolo del rituale LeHera a Richard Schechner su teatro e interculturalismo Eugenio Barba Holstebro 16 settembre 1991 Caro Richard, ieri sera era l'ultimo giorno del Festuge di Holstebro. Festuge in danese vuol dire "settimana di festa". L'abbiamo intitolata "Cultura senza frontiere". E per sottolineare che l'assenza di frontiere è legata alla libertà, ma anche alla labilità, abbiamo raccolto tutte le azioni degli attori - nove giorni e nove notti - in un unico spettacolo ininterrotto dal titolo Vandstier, "sentieri d'acqua", "sentieri di mare". Il titolo "Cultura senza frontiere", che può sembrare ottimistico, ha un sottofondo maligno. Quando la demarcazione dei confini si perde, rischia di perdersi anche l'identità. E quando l'identità diventa incerta, nasce per reazione il rigore, il tentativo esasperato di darsi un profilo opponendosi agli altri. Compare l'intolleranza, la xenofobia, il razzismo. D'altra parte, i confini sono pure illusioni, a volte imposte. Allora generano soffocamento. Nel corso del Festuge si è tenuto un simposio dedicato al tema della politica culturale danese. Parlavano i politici, gli amministratori, alcuni giornalisti, un'antropologa, un professore di letteratura. Discutevano di cultura come mezzo per conservare e conquistare un'identità in un 'Europa che sta abolendo le frontiere. Uno dei relatori disse: "Guardate che cosa succede quando il contorno di uno stato si cancella. Guardate la Jugoslavia, dove non si sa più che cosa significhi essere jugoslavo: risorgono i vecchi particolarismi, i nazionalismi, il fondamentalismo delle diverse etnie". Un altro rispose: "Questo accade proprio per le ragioni opposte, non perché si è perso un solido profilo, ma perché quel profilo era artificiale. Era una camicia di forza imposta in nome di un'ideologia astratta per comprimere la realtà che ora esplode. L'esplosione è violenta perché violenta era stata l'unione". Nel teatro del secolo che sta per finire è successo qualcosa di simile: erosione dei grandi confini che davano identità al teatro d'origine europea; invenzione di piccole tradizioni; crescita di "culture" separate. Per comprendere il teatro del Novecento bisogna tener presente che alcuni teatri, alcuni gruppi, hanno funzionato e funzionano non solo come ensembles, ma anche come tribù. Questa, però, è una parola sbagliata, perché evoca immagini arcaiche. Meglio parlare di "inventori di tradizioni". La geografia del mercato teatrale è stata bucata da piccole oasi, da castelli, enclaves, giardini fortificati. In ognuno di essi sembra che il teatro - il suo senso, la sua funzione sociale, la sua estetica, le sue tecniche, persino la sua storia -vengano reinventati. L'invenzione d'una tradizione non è un falso storico. È la reazione a un contesto e la creazione di un nuovo contesto. Ciò che caratterizza una tradizione è la complessità, non l'antichità. Complessità vuol dire che innumerevoli metamorfosi sottolineano la densità di un nucleo che resta invariato. Spesso la densità del nucleo viene confusa per antichità. Ogni utopia ed ogni eresia credono d'essere la reincarnazione d'una purezza originaria e perduta. Per restare a fenomeni a noi più vicini e familiari: le recenti tradizioni classiche di alcuni teatri asiatici paiono agli ingenui ed ai mercanti millenarie. Alcune di esse, fra l'altro, sono il frutto di matrimoni misti, conseguenze di quel colonialismo innamorato che versava qualche goccia di miele nelle macellerie del Progresso. L'invenzione di tradizioni può comportare forme di settarismo e d'intolleranza ideologica. Anche il teatro ha avuto i suoi fondamentalismi (stanislavskiano, brechtiano, grotowskiano ...). Quando non possono reggersi sulla forza, quando sono costretti ad usare armi esclusivamente culturali, i fondamentalismi sono sostanzialmente innocui, labili per la loro stessa rigidità: basta che muti la moda perché finiscano in fumo. La crescita di piccole tradizioni autonome nel teatro novecentesco ha determinato un'impetuosa crescita della cultura teatrale: le differenze generano significati. Quando pensiamo all' interculturalismo, abbiamo la tendenza ad occuparci delle ripartizioni culturali di tipo scolastico (Europa, Asia, Africa, culture popolari, culture dei popoli studiati dagli antropologi, ebraismo, musulmanesimo, induismo ...). Dimentichiamo, però, che è ormai impossibile pensare il teatro al singolare. Il termine astratto "Teatro" nella realtà indica fenomeni non omogenei, ognuno con i confini che esso stesso e il contesto hanno creato. I confini ristretti a volte generano un complesso di superiorità, in altri casi pingono allo scambio, determinano il bisogno di scendere in profondità e di inoltrarsi nel diverso. Ti sarebbe piaciuto essere qui a Holstebro in questi giorni perché a te piace muoverti in quella terra di nessuno che sta tra la vita quotidiana e la situazione di spettacolo organizzato, tra la performance ed il rituale. Siamo restati in questa terra di nessuno per nove giorni e nove notti, sciogliendo il teatro nella città e assorbendo nel teatro la realtà della città. Ma mischiarsi mette alla prova la consistenza dei propri contorni. È un modo per approfondire le differenze, per definirsi. Quando un attore o un'attrice si gettano nella quotidianità d'una strada o d'un mercato, non stanno fondendosi con la gente, non stabiliscono una comunione con loro. Stanno solidificando la propria identità e quindi la propria differenza. Da qui la possibilità di una relazione. La dimensione interculturale del mondo in cui viviamo non è una conquista: è una condizione di pericolo. Quando resta inerte, la coscienza di coesistere con il diverso genera indifferenza. Scatena reazioni rabbiose, se l'estraneo si fa troppo vicino. Tu conosci la grigia Holstebro e i suoi colori di plastica. Puoi quindi immaginarti la sorpresa di vederla attraversata da due cammelli che portavano in groppa un ornino in cilindro e la sua copia bambino. Ma per la sorpresa i passanti distoglievano lo sguardo. Questa è per me una delle immagini dell'interculturalismo, quando irrompe nella routine delle nostre vite. Ti sto parlando della prima mattina del Festuge. Il nono giorno le cose erano cambiate. La gente si era abituata a non avere più timore d'essere curiosa e gli attori e le attrici potevano introdursi nelle vie e nei supermercati, nelle scuole, nelle chiese, nelle caserme, sicuri di creare una relazione anche al,di là degli abituali confini di accettazione degli spettatori involontari. Più il nostro panorama, visto da lontano, sembra tendere 33
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