Linea d'ombra - anno X - n. 73 - lug./ago. 1992

CONFRONTI in mezzo a tanti altri, e per essere degno del trono non ha avuto altro merito che quello di essersi saputo letteralmente mostrare: "un tempo anche sua Maestà ha fatto parte di quel magma dalle cento facce. Non ha forse dovuto spingere la faccia in avanti, per diventare l'erede al trono a soli ventiquattro anni?". Limitandosi deliberatamente a descriverne le apparenze, Kapuscinski coglie nel segno l'essenza del potere assoluto, perché l'essenza del potere assoluto è puro segno. "È difficile, molto difficile, stabilire dove corra lo spartiacque tra il vero potere, che tutto soggioga, il potere che crea il mondo e lo distrugge ... il potere vivo, impetuoso, perfino terrificante, e l'apparenza del potere, la vuota pantomima del comando, quando si è solamente dei fantocci che recitano un ruolo senza guardare al mondo, sordi a ogni stimolo, buoni soltanto a vedere se stessi". In La prima guerra del football, tra mille movimentatissime traversie, lo scrittore polacco sente spesso il peso dello sradicamento di chi ha lasciato tutte le amicizie in patria ed è sempre straniero dappertutto. È questa la ragione profonda, io credo, per cui Kapuscinski va così spesso a cacciarsi nei guai più pazzeschi: non solo perché è un reporter dal coraggio imbattibile, ma, forse, perché la sua costante sensazione di non-appartenenza va soffocata con quell'enfasi della presenza corporea che solo il pericolo e la paura possono dare: "Fui invaso da una paura animalesca, una paura che mi paralizzava, inchiodandomi lì come se avessi le gambe di pietra, o fossi sepolto in terra fino al collo. Il sudore mi colava addosso ari voli, ma sotto la pelle sentivo freddo come se fossi nudo nel gelo". La situazione non è più rassicurante in Etiopia, eppure percepiamo che nell'Imperatore la scrittura raggiunge una forma di felicità. La narrazione si disfa di ogni dubbio toccando il culmine dell'adeguatezza e della giusta relazione con ciò che viene narrato: giacché là dove le cose sono puro spettacolo, per capire come stanno le cose occorre essere puri spettatori. Un cielo coperto di nubi I ricordi di Yang Jiang Silvia Calamandrei Nella ormai ricchissima memorialistica sulla Rivoluzione Culturale, poco tradotta peraltro in Italia, Yang Jiang (autrice di Ganxiao liuji, 1981; Bing Wu Ding Wei Nian Jishi, 1987; Xizao, 1988, Sanlian Shudian, pubblicati in francese da Christian Bourgois sotto i titoli: Six récits de l'Eco/e des Cadres, 1983; Sombres nuées, 1992 e le bain, 1992) occupa un posto un po' defilato. Questa vecchia signora, nata nel 1911, specialista di letteratura occidentale, traduttrice di classici come La vita di Lazarillo de Tormes e il Don Chisciotte, ha contribuito con due "operette", all'insegna dell'understatement, Sei capitoli di ricordi sulla Scuola quadri, del 1981, e Cronache degli anni Bing Wue Ding Wei, del 1987. Niente a che vedere con le saghe strazianti narrate da tante vittime, né con la "letteratura delle cicatrici" (shanghen wenxue), fiorita alla fine degli anni Settanta a testimonianza delle drammatiche vicissitudini dei "terribili dieci anni". Il tono di Yang Jiang è distaccato, ironico, sferzante nell'uso del linguaggio e nel giocare con le formule rituali della retorica ideologica dell'epoca per rovesciarne il significato. Narra piccole cose, con attenzione puntigliosa, come usando la lente d'ingrandimento. In fondo lei e il marito, Qian Zhongshu, uno dei più grandi letterati cinesi viventi, se la sono cavata relativamente bene, con una rieducazione in una scuola "7 maggio" (la denominazione veniva dalla data di una lettera di Mao a Lin Biao del 1966) e lei è riuscita perfino a salvare il manoscritto della traduzione del Don Chisciotte, sequestrato dalle Guardie Rosse come "materiale nero", per vederselo pubblicare nel 1978. Il suicidio del genero, accusato falsamente di far parte del "Gruppo 16 maggio" e di possedere la lista dei membri di questa associazione dell'ultrasinistra, viene accennato molto sobriamente nei Sei Capitoli: ad accompagnare Qian Zhongshu in partenza per la scuola quadri erano stati in tre, la figlia A-yuan, il genero Deyi e Yang Jiang medesima. Otto mesi dopo, quando Yang Jiang è autorizzata ad andare a raggiungere il marito nello Henan, "c'era solo A-yuan ad accompagnarmi-Deyi si era tolto la vita un mese prima". Nei ricordi della Scuola quadri la narrazione si concentra sui piccoli episodi che animano la squallida esistenza in questo campo di rieducazione relativamente "soft", dove sono stati relegati i membri del dipartimento di letteratura dell'Accademia cinese delle Scienze: l'impresa di scavare un pozzo, di costruire le latrine, cli piantare un orto: lavori il cui unico fine è pedagogico, dato che quando la scuola quadri si trasferisce in un'altra località, tutto viene spianato con un trattore. Ma anche il successo pedagogico è relativo, se nel sesto capitolo, Yang Jiang racconta della sua egoistica gioia all'annuncio dell'autorizzazione a rientrare a Pechino, nel marzo 1972, e conclude che "dopo più di dieci anni di 24 riforma, più due anni di scuola quadri, non solo non avevo raggiunto quell'atteggiamento progressista che ci si prefiggeva, ma mi rivelavo suppergiù altrettanto egoista che all'inizio. Ero rimasta in fondo sempre la stessa". I Sei Capitoli sono preceduti da una breve prefazione del coprotagonista Qian Zhongshu, uno dei massimi filologi ed interpreti della poesia e della pittura classica cinese (di lui sono stati recentemente tradotti in francese Cinq essais de poétique, Christian Bourgois, 1987, nonché il romanzo degli anni '30, Lafortezza assediata, ripubblicato con grande successo di pubblico in Cina nel 1983.) Secondo Qiang Zhongshu, Yang Jiang avrebbe dovuto aggiungere un altro capitolo, sulla "vergogna di partecipare ad una campagna politica", vergogna che dovrebbero provare tutti coloro che si sono lasciati trascinare in campagne di persecuzione in quegli anni, ivi compresi coloro che si sono limitati ad una partecipazione passiva, mancando del coraggio di denunciare l'ingiustizia - e tra questi si incÌude, nella misura in cui è rimasto una vittima minore, un bersaglio secondario ed ha dovuto "accompagnare" la lotta contro altre vittime maggiori. Quelli che sono stati in prima fila nelle denunce e nelle persecuzioni - scrive Qiang- hanno probabilmente tendenza a dimenticare, a rimuovere: la vergogna,egli conclude, è un'emozione pericolosa nella vita di oggi, e viene accantonata nell'interesse della propria salute fisica e mentale. In un certo senso YangJiang ha raccolto l'invito. A questo sentimento della vergogna, del disagio della complicità, attiva o passiva, mi pare ispirato il romanzo che è uscito nel 1988, Xizao, tradotto ora in francese sotto il titolo le bain (Christian Bourgois, 1992), ambientato in un istituto accademico durante la prima campagna di rieducazione degli intellettuali, agli inizi degli anni Cinquanta, la campagna cosiddetta dei "Tre Anti" (ufficialmente designata a combattere "la corruzione, lo spreco ed il burocratismo", ma mirata tra l'altro ad assicurare un più saldo controllo del Partito comunista cinese sulle strutture accademiche, piene di intellettuali formatisi in Occidente, di dubbia lealtà). Il romanzo è stato presentato dalla critica cinese come il seguito della Fortezza assediata, e in effetti si t;ratta di una fotografia dell'ambiente accademico cinese a vent'anni di distanza. Qiang Zhongshu aveva ritratto l'odissea tragicomica di uno dei tanti studenti cinesi rientrati dall'estero, che cerca di farsi una posizione utilizzando titoli di dubbio valore acquisiti in Occidente in una Cina sconvolta dall'aggressione giapponese. Sua moglie ci descrive ora gli intrighi meschini e l'esistenza mediocre di un gruppo di intellettuali rientrati subito dopo la Liberazione, animati dal patriottismo, ma anche dalle speranze di carriera. E ci

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