Linea d'ombra - anno X - n. 73 - lug./ago. 1992

CONFRONTI paura, parlano solo "attraverso citofoni, grate, catenelle, finestre di cesso". "Ben presto poi ho scoperto che, se il problema principale è farsi aprire, l'altro problema è uscire. Molta gente in realtà vuole parlare con qualcuno. E non solo gente anziana. Comincio a capire le gratificazioni dei volontari della Caritas o del S. Egidio. Questa gente vive sola". Come ogni rilevatore, Marco Pasquali impersona in definitiva un funzionario pubblico, anche se nella versione più effimera e precaria: ciò rende allo stesso tempo possibili e impossibili i rapporti con la gente che incontra, fa da cornice ai dialoghi come un cattivo presupposto (una signora ha sentito dire che chi non si fa censire rischia l'arresto!). Ogni comparsa del rilevatore sul pianerottolo è pur sempre una personificazione dell'autorità che produce soggezione, diffidenza, reazioni di difesa, di complicità. Ognuna di queste conversazioni deve innanzitutto superare la distanza fra Stato e stato delle cose. Le parole vengono scambiate in questo contesto né autentico né falso, che rende significative sia le reticenze che gli sfoghi, sia le risposte formali che le confidenze imbarazzanti della gente. Nelle sue settimane da rilevatore, Marco Pasquali scopre un'infinità di attività economiche sommerse; entra in appartamenti luridi pieni di cani e gatti, in case stipate di soprammobili kitsch e senza un libro, conversa in latino con le monache di un convento, impara come funziona il giro di africane nei night-club, dove scagnozzi poco rassicuranti gli stanno col fiato sul collo mentre lui compila il loro modulo; conosce un inventore di macchine per studiare durante il sonno che le costruisce una per una, da vero artigiano elettronico; enumera, quando ci sono, i motivi sociali di ostilità degli italiani verso "negri, cinesi, marocchini e tutti gli extra in genere"; incontra molte di "quelle che io chiamo le coppie criminali: madre vedova e figlio tossico"; contesta il luogo comune dell'idea di città come rete di comunicazioni, di fronte al progressivo chiudersi in se stesse, come nel medioevo, delle varie insulae urbane. "Vista coi miei occhi, una società metropolitana è in sostanza un caos grossolanamente organizzato, spesso auto-organizzato. Ho visto effettivamente gruppi ben strutturati internamente (parenti o meno, non importa), ma tutto sommato erano pochi. Realtà diversissime coesistono sullo stesso pianerottolo e nessuno nemmeno sa chi è il proprio vicino". Marco Pasquali si è accorto di un sacco di cose interessanti perché non ne ha cercata nessuna in particolare. Non ha fatto un'inchiesta giornalistica, si è preso la briga di descrivere a tappeto, senza scartare o privilegiare nulla. È proprio questo che rende affascinante Ho fatto il censimento: che si sia suonato ad ogni campanello, varcato ogni portone, salita ogni scala, e che in questo modo l'inaspettato e l'assurdo, ma anche la banalità e la desolazione, si siano presentati gratuitamente o si siano chiusi ancora di più a riccio dietro il mistero di una facciata: "eppure certi palazzi resteranno per me sempre opachi. Alcuni sono per me ormai di vetro, e la sera, quando ci passo davanti, è come se la facciata non esistesse. Certe volte so quello che la gente fa e quando lo fa". Alla fine, nell"'impietoso elenco di quelli che per me si sono persi un'ottima occasione professionale", ci sono anche "gli aspiranti soggettisti e sceneggiatori che ogni venerdì sera vanno a masturbarsi da Leo Benvenuti sperando di lavorare nel cinema. Avrebbero immagazzinato centinaia di soggetti, trame e personaggi solo a girare per case come ho fatto io". Per forza di cose, la trentina di pagine di questo libretto sorvola su molti particolari, perlopiù accennando e riassumendo, con un tocco rapido che è il suo pregio e il suo forzato limite. Ma se Marco Pasquali non li ha accantonati, spero di conoscere in un suo prossimo libro i soggetti, le trame e i personaggi che ha immagazzinato andando in giro per case. La voce del soprammobile Nel 1980, Irina Liebmann ha scelto un condominio di Berlino est, un caseggiato a cinque piani come tutti gli altri nella zona, in una comune strada di Prenzlauer Berg. Si è presentata in tutti gli appartamenti abitati, nei due negozi, nella piccola officina del cortile interno. Ha detto di essere una scrittrice e di avere intenzione di scrivere un libro sugli inquilini del condominio. "Ero molto sorpresa della gentilezza con cui quasi ovunque mi accoglievano, del coraggio con il quale la maggior parte delle persone raccontava di sé, taluni quasi avessero da lungo tempo atteso che venisse qualcuno a porre loro delle domande". Vorrei cominciare a parlare di Condominio berlinese (edito da 22 Theoria) dall'appendice finale. Un anno dopo i suoi ventinove colloqui, la Liebmann è tornata nel condominio a far leggere a ciascuno degli inquilini il capitolo del manoscritto che lo riguardava. Ha potuto cosi stilare un elenco stringato dei mutamenti accaduti nel frattempo. È leggendo questo elenco che il lettore si rende conto di non ricordare quasi nulla delle storie di cui è appena venuto a conoscenza lungo i capitoli del libro. Come è possibile, ci si chiede, che i 'finali' di tutte queste vicissitudini pacate e drammatiche, rassegnate e astiose non muovano nemmeno un'emozione? Come è possibile che non si provi nemmeno un guizzo di curiosità nel momento in cui si sta per venire a sapere come sono andate a finire (o meglio, come sono andate a continuare) le storie lette appena un'ora fa? Eppure Condominio berlinese non è affatto un libro noioso o monotono. È un libro essenzialmente tonale. Più che trascrivere i contenuti di una serie di confidenze, alla Liebmann preme di raccontarne il tono: "Il lettore non troverà dunque qui un racconto dettagliato della vita delle persone, ma soltanto la riproduzione fedele di discorsi e di situazioni". La sua è una scrittura apparentemente dimessa, che non si concede quasi mai una metafora, una notazione colorita. "Inspira rumorosamente, espira rumorosamente, quanta aria entra in un vigile urbano", è l'unica licenza poetica in duecento pagine. Le frasi trascolorano impercettibilmente dalla descrizione dei volti e delle stanze alla trascrizione dei discorsi, senza mai incepparsi nelle virgolette o in altri indicatori grammaticali: "In ogni caso i bicchieri e le porcellane della vetrinetta sono nuovi, comperati o regalati dall'azienda. Non ha cambiato azienda, ha sempre lavorato alle poste, prima della guerra alla manutenzione degli apparecchi telefonici del ministero dell'aviazione, dopo la guerra Werner G. tornò nello stesso edificio, vennero altre persone, nuovi ministeri, più nessuna traccia di Gèiring, più nessuna di quelle uniformi nere che ci stavano sempre dietro quando lavoravamo". Le parole degli inquilini sono poste allo stesso livello della descrizione dei loro paesaggi domestici, sono offerte al lettore da una scrittura che non vuol fare differenza fra descrizione e citazione di enunciati, fra raffigurazione dei luoghi e reperto documentario dei discorsi. I volti, i mobili, le pareti e le frasi sono la stessa cosa, sono la stessa casa, il condominio è ammobiliato di frasi tanto quanto lo è di sedie e sopramombili: "La signora F. va di nuovo nell'angolo, e ne ritorna con una fotografia più piccina, anch'essa con una cornice dorata. Anche questa sono io. Vede, il nastro intorno al collo è del costume da bagno, è stata scattata durante una gita in barca, ero con la mia seconda delusione". Nei romanzi di solito accade il contrario, ledescrizioni del paesaggio e degli ambienti circondano come un'ipoteca di realtà le parole dei personaggi. Il paesaggio descritto è la zolla di terra linguistica dove le battute dei protagonisti sbocciano come corolle di utopia, come zone franche del linguaggio dove tutto è possibile perché non deve più impegnarsi in una descrizione. Qui invece l'apertura al possibile, le parole degli inquilini, le voci dove accadono il desiderio, il lutto, l'ambizione e lo sconforto, parlano lo stesso linguaggio destinato ai sofà e alle vetrinette. Sobrietà di stile e omogeneità dei livelli linguistici fanno sì che tutto venga schiacciato a una distanza media, senza primi piani né sfondo. La scrittura si è collocata in un punto d'ascolto dove convergono le parole altrui e quelle proprie, le frasi delle persone e quelle delle cose, la lingua dei desideri e quella del disincanto. Alla fine si ha davvero l'impressione di avere ascoltato un'univocità corale più che una pluralità di assoli, perché nelle pagine della Liebmann il condominio è un organismo unico, è un animale narratore a ventinove bocche. Ritratto dello scrittore in veste di Candid Camera Sandro Veronesi ha partecipato a tre Saloni del Libro di Torino: il primo anno in una pellicceria vuota, l'anno dopo in una scuola media americana sulle colline, la terza volta aì fianco di un critico improvvisato all'ultimo momento. Ha pescato un pesce-siluro in un laghetto sul!' Appennino Emiliano. Si è fatto raccontare dai ragazzi livornesi, gli scultori del Black & Decker, la storia delle false teste di Modigliani. Ha ascoltato i padri di famiglia, i nonni, gli zii che picchettavano laFarmoplant contro l'inquinamento da pesticidi della riviera apuana. Ha viag&iato da Prato fino al mobilificio di Biella sul pullman di Aiazzone. E entrato nel circolo di ritrovo degli emigranti pugliesi di Panni, radicati dagli anni

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