Linea d'ombra - anno X - n. 73 - lug./ago. 1992

IL CONTESTO Il lembo del mantello Magistero e problemi sociali Aldo Bodrato Spinto dal coro delle citazioni e dei consensi ho ricercato e letto la "pastorale" dell'arcivescovo di Milano sulla "comunicazione" dal titolo Il lembo del mantello e ho avuto una netta impressione di spaesamento. Mi capita ogni volta che affronto dei documenti di papi e vescovi su terni politici, sociali, tecnici e scientifici. Nel caso, però, il disagio era acuito dalla statura del personaggio, dalla sua fama di fine biblista e di uomo di cultura, dall'universalità delle lodi e dalla disarmonica cerebralità del testo in questione. Mi è parso di trovarmi di fronte a qualcosa di patologico; non nel senso in cui si parla oggi delle esternazioni di Cossiga, ma in quello di chi coglie nel consenso acritico che circonda la figura di Martini un principio di falsificazione allarmante e nel confuso genere letterario di questa lettera pastorale un segno di effettivo e grave disagio dell'estensore di fronte al tema. Non si spiega altrimenti la scelta di unire in una eterogenea e sgradevole pastiche: due "paginette" di teologia speculativa, un'improbabile finzione dialogica, la lingua della colloquialità con quella della saggistica, fioretti da apologetica meneghina (I' incredibile accenno all'accordo tra la madonnina del duomo e quella del pirellone) luoghi comuni ecclesiologici, voli pindarici ad altezza di satelliti e picchiate precipitose verso quotidiani programmi pastorali, laudi francescane e realismo ignaziano. Certo non tutto è da buttare e la lettera contiene molte osservazioni sull'uso del mezzo televisivo condivisibili ed acute, ma tutte cadono nell'ampio margine del motivato e razionale buon senso, il che, per quanto raro negli alti vertici ecclesiastici, non autorizza affatto all'entusiasmo. Da questo punto di vista mi pare proprio che ormai su Martini si esageri e che per certa pubblicistica cattolica e no lo sforzo di farne il contraltare non integralista di Wojtyla legittimi nei suoi confronti quanto i mariologi di bassa lega ritenevano lecito per la Madonna. De Maria numquam satis, "Per Maria le lodi non bastano mai", sostenevano e la prima a rimetterci fu Maria, la Maria dei vangeli, soppiantata dall'idolo delle apparizioni e dei santuari. Né sarà diverso l'esito della "Martinolatria". Le lodi immotivate danneggiano, invece di sostenere, perché non aiutano a correggere errori ed insufficienze, ed una grave difficoltà del testo di Martini viene alla luce fin dall'attacco della lettera. Il cappello teologico risulta davvero forzato. L'autore se ne accorge, lo dice anche, ma non ha il coraggio di tagliare corto e di affrontare il tema senza una qualche speciosa giustificazione religiosa. Si sforza allora di trovarla, ma il rimedio è peggiore del male. L'immagine evangelica del lembo del mantello, allegorizzata a figura dei mezzi di comunicazione di massa, è stiracchiata in modo inverosimile, quasi una caricatura di certe aberrazioni esegetico-pastorali, che per far dire tutto al vangelo finiscono col non fargli più dire nulla. Non solo, ma l'idea di partire dalla teologia trinitaria, dall'intercomunione divina per illustrare la necessità e le modalità della comunicazione interumana è di un Il cardinal Mortini in uno foto di Giovanni Giovannetti. clericalismo deduttivo che spaventa. A parte il fatto che sembra accreditare l'idea che sia più facile conoscere Dio(trascendenzae mistero) che l'uomo, essa opera come se per trovare la pantofola caduta dal piede fosse necessario non cercarla nelle vicinanze, magari col piede stesso, ma immergersi con la mente in Dio per vedere dove mai stia in Lui la sopraddetta e solo dopo e di conseguenza agire per trovarla. È il guaio classico di ogni gesto magisteriale che non affronti terni di fede, ma argomenti puramente secolari. Invece di partire da ciò che laicamente si sa su di essi, come naturale, servendosi delle normali scienze prodotte dall'umana ragione, partono dalla teologia per meglio legittimare la propria autorità, salvo poi scivolare rapidamente ai luoghi comuni del sapere comune, con la pretesa e l'illusione di aver detto qualcosa di più. Il risultato è che si produce così cattivo sapere sia profano che teologico, per la pretesa di parlare su tutto con competenza. Ma il danno più grave lo subisce la parola di fede, ridotta a panacea di tutti i mali, a meccanismo produttore di formule dedotte da principi astratti e ideologici. Possiamo dare per scontata la buona fede. Papi e vescovi affrontano questi terni perché credono sia loro richiesto dal dovere pastorale, dal loro ruolo di guida di intere e vaste comunità, dal bisogno di orientamento degli uomini. Parlano e sbagliano. Per accorgersene basterebbe che rileggessero criticamente i propri testi e considerassero la mostruosità eclettica del loro genere letterario, oppure che analizzassero la contraddittorietà e la coralità dei consensi ricevuti, indice sicuro che il loro dire non è stato né chiaro né risolutivo. A qualcuno questo intervento parrà ipercritico, pretestuoso e forse anche malintenzionato. Ma in realtà non sarebbe mai stato scritto se il coro dei consensi acritici e sperticati per ogni documento magisteriale che tocchi terni sociali non avesse fatto correre ad ammirare anche me questo straordinario Lembo del mantello del Cardinale, come già a suo tempo l'enciclica papale sulla giustizia, per accorgermi con meraviglia che tanta bellezza è finzione. Non è allora, eccesso di pretesa o frutto di sofisticato sapere, ma forse solo innocenza di bambino quella che mi fa gridare, ogni volta che un uomo di chiesa veste i panni dell'uomo di mondo: "Oh Dio! Proprio come l'imperatore, il cardinale è nudo". 17

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