Linea d'ombra - anno X - n. 72 - giugno 1992

STORIE/ BANDINELLI Ormai in confuienza con la mentalità di Hitler e Mussolini, conducevo il discorso per ottenere da essi, e più da Mussolini, certe prestabilite risposte, divertendomi a prevederle. Mussolini era influenzabile e pronto a sostenere qualsiasi tesi, pur di riuscire gradito ali 'interlocutore. rimangiata pure quella!") Già, io sapevo tutto. Infatti, poco dopo, passando sul ponte alle Grazie, Mussolini mi chiese quanto era profondo l'Arno. "Un metro e settantacinque", risposi; ma sembrò poco, e io giustificai l'Arno con l'essere in quel momento in magra; "quando è in piena, quattro o cinque metri", i quali furono ritenuti bastevoli alla storica maestà del fiumicello. Intanto Hitler era assorto, sognante. A Roma aveva spesso ripetuto che nulla lo attraeva quanto Firenze, che egli considerava "der Hohepunkt", il culmine, del suo viaggio; il suo sogno di "artista". Certamente egli pensava: "Sono a Firenze, dove tante volte avrei voluto venire e non potevo: ora ci vengo così, fra questo mare di popolo acclamante." - A Roma le vie più larghe e le decorazioni di compensato e cartapesta a finto marmo e finto bronzo, con le quali si erano "abbellite" le strade del percorso, tenevano distante la folla. Ma a Firenze l'automobile fendeva la ben nota "folla oceanica" delle grandi occasioni, e grida e gesti colpivano direttamente; era una sensazione fisica, una specie di massaggio elettrico, sensibile anche a me, al quale le grida e i gesti non erano diretti; ed ebbi la percezione che, per quei due personaggi, questo contatto elettrizzante doveva essere divenuto un bisogno insopprimibile, da rinnovarsi di tempo in tempo, senza del quale non avrebbero più potuto vivere, e che dava ad essi una specie di muta esaltazione. Era forse, per essi, la vera ragione della loro avventura. Dall'alto del piazzale Michelangelo, Firenze si mostrava in uno dei più bei pomeriggi di primavera. Era piovuto il giorno innanzi, e l'aria era trasparente sino alle vette azzurrognole delle Apuane; gli olivi e i cipressi di Fiesole sembravano ravvicinati da un apparecchio stereoscopico. L'unica cosa che disturbava il panorama erano le orecchie d'asino dell'architetto Bazzani sulla Biblioteca Nazionale, e io ne approfittai per suggerire a Bottai di farle demolire. Mi disse che aveva già impartito l'ordine in proposito. Ma ci sono sempre. E adesso, purtroppo, ben altre cose infrangono la bellezza del panorama di Firenze, dopo che l'amorosa rabbia di Hitler ne ha fatto dilaniare il volto, al momento che le sue truppe furono costrette a lasciarla, perché nessuno la riveda come la vide lui. Hitler stette un lungo tempo a guardare. Gorgogliava in gola suoni indistinti. Poi parlò. Disse: "Endlich; endlich verstehe ich Bocklin und Feuerbach!" (Finalmente, finalmente capisco Bocklin e Feuerbach). Bocklin, che aveva vissuto là di fronte, a Fiesole, e aveva dipinto cipressi e olivi, cieli azzurri e prati letterariamente popolati di ninfe e di centauri; Feuerbach, nostalgico pittore di Euridici, Ifigenie e Medee avvolte in bianchi lenzuoli, rappresentavano, per il dilettante pittore di Braunau, l'Italia. Era (con buona pace di Giorgio de Chirico, pictor optimus, che è rimasto l'unico autorevole ammiratore di Bocklin in Europa), come se a Venezia qualcuno dicesse: "Finalmente capisco Ettore Tito e Fradeletto !" o a Parigi: "Finalmente capisco Meissonnier e Boldini." E seguitò: "E pensare che, se fosse venuto il bolscevismo, oggi tutto questo sarebbe distrutto, come in Spagna. La Toscana, il paese più ricco di cultura del mondo!" E poi, esaltandosi, con voce stridente e picchiando il pugno guantato sul parapetto: "/eh werde es nie dulden, dass in Deutschlandjemand wieder solche Gedanken hat. Man muss das gleich mit alter Gewalt vernichten! Mussolini hat sich hier einen grossen Verdienst an die Menschheit erworben!" (Non sopporterò mai che qualcuno torni ad avere in Germania delle idee simili. Bisogna subito estirparle con ogni violenza. Qui Mussolini si è conquistato un grande merito per l'umanità.) Per Hitler, questo era proprio il pomeriggio delle sincerità. Questa idea isterica, direi quasi freudiana, del bolscevismo distruttore, che del resto tanti autorevoli personaggi ancor oggi si onorano di condividere con lui, gli si fissò talmente nel cervello, che la ripetè subito aMussolini, e poi ancora altre volte nello stesso pomeriggio. Anche agli Uffizi, dinanzi al tondo Doni con la Sacra Famiglia, di Michelangelo. Mussolini si annoiava perché la visita, tra Pitti e Uffizi, durava troppo. Mi passò accanto e, facendo un cenno con la mano come per affrettare il passo, mormorò: "Qui ci vorrebbe una settimana." Ma il podestà di Firenze mi aveva pregato di rallentare un poco, perché in Palazzo Vecchio il rinfresco non era ancora pronto. Del resto io avevo ceduto la guida all'amico Kriegbaum, direttore dell'Istituto tedesco di Storia dell'Arte di Firenze, che assolveva il suo compito con sentimenti non diversi dai miei e col quale ogni tanto ci scambiavamo degli sguardi. (Ma egli, più di me, soffriva per l'abiezione nella quale era caduta la sua patria. E poi, venuta la guerra, lo vidi consumarsi di giorno in giorno, perdere la sua scintillante ironia, logorarsi per la distruzione dei valori della cultura e dell'arte, in Europa, nella sua terra e nella nostra, sinché trovò, quasi cercata, la morte nel primo bombardamento aereo di Firenze, al quale, egli sempre diceva, non avrebbe mai voluto sopravvivere.) Mentre la visita di Hitler proseguiva, Mussolini passeggiava attraverso le sale con le gerarchie locali. Ma quando lo vide fermo dinanzi al tondo Doni, attraversò in obliquo la saletta, gli si mise accanto e lo guardava, come per sentire, lui disinteressato a queste cose, quello che il collega "artista" avrebbe detto dinanzi al primo Michelangelo della sua vita. Hitler, le mani sul basso ventre (a nascondere, dicevano i maligni, l'unico disoccupato che fosse rimasto in Germania), guardava il dipinto mormorando in fondo alla gola "Michelanghelo, Michelanghelo". Poi volgendosi a Mussolini: "Wenn der Bolschevismus gekommen wiir' ..." (Se fosse venuto il bolscevismo ...) Il ritornello fu completato da Mussolini, con una certa malagrazia e con una spallucciata, ma nel suo più schietto tedesco romagnolo: "Al/es zerstèert" ( Tutto distrutto.)( ...) Sulla porta di Palazzo Vecchio terminò il mio incarico di duce del Ftihrer. Lasciando il passo ai personaggi autorevoli, senza prender congedo, io mi eclissai nell'ombra del cortile. Il difficile fu rimanervi, nell'ombra, e mi ci volle molta diplomazia e fermezza. Dai ministeri italiani fui facilmente dimenticato, perché non mi feci più vivo. Ma i tedeschi cominciarono a perseguitarmi con inviti ufficiali, con richieste di tener conferenze in varie città su come il Ftihrer aveva "vissuto" l'arte italiana, e con richieste di interviste. E non mancò nemmeno l'invito, che fu il più scabroso a rifiutare, quello di un personaggio che si supponeva allora capo delle SS in Italia e che, nascondendosi sotto le vesti di un innocuo archeologo, aveva facile occasione di incontrarmi, e voleva un articolo per il famigerato giornale delle SS, "Das schwarze Korps". Ma queste, e altre cose, fanno parte di ricordi personali, che non interessano. 47

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