STORIE/ BANDINELLI i musei in incognito. (Quando parlava così, si aveva l'impressione che quest'uomo avrebbe potuto alzarsi una mattina e dire: "Basta, mi sono ingannato, non sono più il Fiihrer." Dinanzi aMussolini un pensiero simile non veniva mai. Lo si sentiva attaccato con ogni fibra al potere, al successo, per mantenere il quale sarebbe stato pronto, stando alla mia impressione, a rinnegare tutto ciò che aveva fino ad allora sostenuto.) Parlando così, Hitler aveva tutta l'aria di essere sincero. O giuocava anche con me, per abitudine presa, a fare l'uomo candido semplice amante della quiete, come aveva fatto, spesso con successo, ogni volta che si era incontrato con un diplomatico anglosassone? Chi sa? Intanto non si poteva non pensare, con un brivido, ma senza riuscire a sentirne la presenza, che questi era pur l'uomo dell'eccidio del 30 giugno 1934. Effettivamente, da tutto quanto è stato scritto su Hitler, da Heiden a Rauschning, a Gisevius, risulta che le qualità nelle quali eccelleva erano la simulazione e l'inganno. Forse, l'aperto istrionismo nel- !' uno, la simulazione perfetta nell'altro, erano gli istinti fondamentali e motori di questi due uomini. Invece, tutto il gruppo del seguito dava ogni tanto una impressione sinistra a chi lo considerasse, sapendo anche solo un poco della sanguinosa storia del nazismo e delle rivalità fra i capi. Accanto alla faccia volpina e agli occhi intelligenti e caldi di Goebbels, il grande propagatore di menzogne, che si era venduto a Hitler al tempo della crisi di Strasser; a quella di Himmler, il misterioso capo della Gestapo, forse il vero padrone della Germania, che avrebbe avuto soltanto un aspetto subordinato di sottufficiale della sussistenza se non fosse stato il suo sguardo fisso e inespressivo da pesce a renderlo francamente sconcertante, c'erano poi certi tipi come Sepp Dietrich, veri macellai pronti a entrare in funzioni da boia, che trascinavano pesantemente la loro mole di sala in sala, affondando ogni momento i loro enormi sederi, fiancheggiati da grosse pistole, sui fragili sedili del museo. Ridiscesi al piano terreno della Villa Borghese, ci fu un rinfresco. Nel gran salone d'ingresso il buffet per le persone del seguito; nella saletta egiziana la tavola apparecchiata per l'Olimpo. Io mi ero fatto in disparte ali' ingresso in questa saletta, ma un cenno ministeriale mi indicò di entrare, e un altro cenno di Mussolini, che aveva già preso posto al centro della tavola, mi indicò di sedere accanto all'ospite. Non c'è che dire, era piuttosto strano che mi trovassi a quella tavolata. Alla mia sinistra, Hitler, alla mia destra Goebbels; poi veniva Ciano; poi un altro paio di personaggi che non avevo identificato; poi la tavola voltava e, quasi in faccia a Ciano, Himmler. Mussolini discorreva animatamente con Ribbentrop che era alla sua sinistra e dopo un poco mi disse di "chiamargli Galeazzo", che si alzò di scatto e accorse a prender parte al colloquio. A me incombeva, evidentemente, di tener desta la conversazione con Hitler e gli altri tedeschi. Ritornai a parlare dei quadri veduti e della formazione cardinalizia della raccolta. Si parlò di mostre ed esposizioni. Hitler disse che era stata richiesta una mostra di arte tedesca in America, ma che egli si era opposto. Prima di tutto "ci sarebbe stato il pericolo che i quadri venissero sfregiati dai bolscevichi e poi, perché essere cortesi con un popolo, la cui stampa ci attacca sempre così bassamente." "(unsfortwahrende so gemein angreift). lch hab' halt g'sagt, dass ich keine Devisen hatte. Aber die hatt man schon g 'funden!" (Ho detto che non avevo la valuta necessaria. Ma quella si sarebbe trovata.) 46 Riproduco testualmente quelle frasi, anche insignificanti, che trovo segnate sul mio taccuino, perché danno un'idea esatta del modo di parlare e della pronunzia di Hitler. Sul tavolo c'erano dolciumi di ogni qualità, ma Hitler beveva soltanto il suo tè e mangiava certi biscotti secchi e d'aspetto melanconico, che gli erano stati serviti a parte. La conversazione languiva e io, un po' esitando offrii all'ospite un piatto di marroni canditi, che stava dinanzi a noi, spiegandogli, a una sua domanda, di che cosa si trattava. Allora Goebbels si chinò in avanti e incitò il Fiihrer a prenderne, dicendo che si trattava di quei famosi marroni dei quali era così ghiotto Goring. E seguitò a raccontare che Goring, ogni volta che veniva in Italia, ne comprava sempre qualche chilo, poi, andando a letto la sera, ne metteva una dozzina sul tavolo da notte e spalancava le finestre perché il freddo notturno gli togliesse la voglia di uscir di sotto alle coperte; ma i dodici marrons glacés venivano presto divorati. Goring spenge il lume e cerca di dormire. Ma la gola lo tormenta e non riesce a prender sonno. Finalmente, dopo un'ora di lotta con se stesso, avendo da un lato il punto d'onore di non mangiarne più di dodici e il freddo della notte, e dall'altro la ghiottoneria, questa finisce per vincere e Goring balza dal letto, afferra il pacco dei marroni e se li divora tutti in un momento. Questa storiella suscitò in tutti grandi risate, fuori che in Hitler, che sembrò con un vago sorriso di averla appena ascoltata. Si voleva, forse, mantenere imparziale, conoscendo l'odio reciproco che si portavano Goring e Goebbels. Ma ecco che, finite le risate, dall'altra parte del tavolo, la voce atona e flemmatica di Himmler domanda: "la, Herr Reichsminister, dica, signor ministro, come ha fatto a sapere tutto questo?" e Goebbels, quasi sibilando, a mezza bocca e un po' sottovoce: "!eh hab' ihn bespitzeln lassen" (L'ho fatto spiare). Non era che uno scherzo. Ma le persone, di chi faceva la domanda (una domanda che diveniva professionale) e di chi dava la risposta, erano tali, e i rapporti di reciproca diffidenza in seno alle alte gerarchie del partito erano così tesi, che questo scherzo assunse un tono veramente sinistro. Quasi nessuno rise. La conversazione cadde. Hitler masticava lentamente uno dei suoi biscotti sabbiosi, guardando le pitture del soffitto. ("Ornamenti di Giovan Battista Marchetti, figure di Tomaso Conca, anni 1782 e seguenti", sarebbe stato mio ufficio di suggerire.) (...) Firenze, 9 maggio lunedì Mussolini disse, appena che mi vide:" Da ist unser Retter, des Alles weiss" (Eccolo, il nostro salvatore, quello che sa ogni cosa). E infatti sapevo ogni cosa, perché, ormai in confidenza con la mentalità dei due, non solo inventavo senza esitazione quello che non sapevo, ma mi divertivo a fare piccoli esperimenti, conducendo il discorso per ottenere da essi, ma specialmente da Mussolini, certe prestabilite risposte, divertendomi a prevederle. Era un giuoco facile, ma che mi dava la cognizione di q.uanto fosse influenzabile Mussolini, pronto a sostenere qualsiasi tesi, pur di riuscire gradito all'interlocutore. (Ricordavo che a una giornalista inglese, che dopo di lui doveva intervistare Croce, Mussolini aveva detto: "Ho affermato una volta che io non avevo mai letto un libro di Croce; dovevo dirlo per ragione polemica; ma io ho letto tutto di Croce e sono uno dei più convinti ammiratori del suo grande intelletto." Al che Croce, quando gli fu riferito, avrebbe esclamato: "Una volta sola chillo aveva detto la verità, e ora si è
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