Linea d'ombra - anno X - n. 72 - giugno 1992

CONFRONTI tormentare per dieci giorni un padre polacco nel bunker della fame. È morto in modo del tutto individuale, un bel destino singolo, fuori moda. Lei invece, caro amico, verrà solo gasato. Lei muore qui, se non riesce a sopravvivere, come semplicemente muore l'eroe di oggi, senza nome e spento da forze che egli nemmeno conosce, e tantomeno può combattere. Quindi, una morte senza senso". Senza senso quindi? Fuori moda il destino individuale? Senza nome ogni morire? Se esiste nel nostro tempo un drammaturgo del destino, di cui tutta l'opera sia una singolare resistenza ai processi di anonimizzazione e spersonalizzazione dell'uomo, questi è RolfHochhuth. Come il noto teologo ebreo Emil Fakkenheim nella sua Teologia dopo Auschwitz diede ai suoi fratelli e sorelle ebrei il consiglio di mantenersi fermi nella fede in Dio malgrado tutto, per non fornire una vittoria postuma agli atei assassini nazisti, ossia la cercata vittoria del nichilismo sulla fede, sulla dignità propria dell'uomo ebraico, così l'opera di RolfHochhuth, con l'insistenza sulla irrinunciabilità dell' azione del singolo, è un tentativo unico di non collaborare, in maniera postuma, alla vittoria del cinismo di Auschwitz. Proprio questo infatti sarebbe il trionfo postumo degli Hitler, Himmler, Heydrich, Eichmann e Mengele: rendere indifferenti i destini individuali, l'umiliazione della persona al livello di un nulla senza storia e senza volto, la privazione della dignità dell'uomo, riducendolo a un pezzo, prodotto dalla catena di montaggio della storia universale, privo di significato. Allora gli enigmi della storia, per questo autore, sono rimasti e rimangono irrisolti. Perché? Perché le domande metafisiche ultime non possono trovare risposta: la domanda di un significato ultimo di questa storia reale, profondamente ambigua, abissalmente inquietante, la domanda su Dio. È questa la questione di fondo, ora esplicita ora segreta, di quest'opera, e chi come Hochhuth si mette di continuo di fronte alla storia, come egli ha fatto ancora ultimamente nel suo dramma sullo scoppio della prima guerra mondiale Estate 14, che egli chiama "una danza macabra", in quanto storico non può che rimanere preso dagli enigmi della storia, dai quali non è in grado di indicare alcuna via di uscita. In tutti gli sviluppi della sua opera, questa domanda, fondamentale in Hochhuth da/l Vicario fino a Estate 14, è sempre stata presente. In ventisette anni, la domanda sul senso della storia, la domanda su Dio è rimasta priva di risposta, priva di una possibile risposta; anzi il significato di quest'opera dal punto di vista religioso sta forse proprio in questo: nel tener sempre aperta questa domanda. Se le mie riflessioni sono corrette, in Hochhuth non vi sono risposte conclusive, ma solo due negazioni, decisive per affrontare la domanda su Dio. La prima consiste nel rifiuto di ogni forma di teodicea positiva, nel rifiuto di un rapporto filosoficamente o teologicamente affermativo con le assurdità della storia. Da Il Vicario, fino a Estate 14 Hochhuth smaschera ogni filosofia, sulla linea daLeibnitz a Hegel,come chiacchiera che o inserisce armonicamente i lati oscuri della storia nel tutto, oppure li liquida dialetticamente. Chiacchiera è per lui però anche ogni teologia che sulla linea di Agostino e Lutero cerca di inserire Dio nelle negatività del mondo o, comunque, di fare del negativo lo strumento pedagogico della provvidenza o del disegno divino. Ma contemporaneamente c'è una seconda negazione. Infatti, sembra inaccettabile a Hochhuth anche ogni forma di teodicea negativa, cioè l'affermazione che la fede in Dio sia diventata del tutto assurda per effetto di Auschwitz. Era quanto il dottore nel dramma Il Vicario aveva considerato come il motivo di tutto il suo lavoro: stare a vedere se Dio, in quell'assassinio di massa da lui organizzato, non avrebbe alla fine reagito, fornendo così una prova della propria esistenza. Proprio il dottore voleva costringere Dio a rivelarsi e dal fatto che, durante il suo massacro di massa, non gli si sia mai presentato, trae ora la conclusione: "Creatore, creazione e creatura sono confutati da Auschwitz". Hochhuth avrebbe dovuto cessare di scrivere se fosse stato dimostrato falso, una volta per tutte, un qualsiasi senso della storia, e avrebbero ragione quei cinici che sono sempre stati dell'opinione che questo mondo con tutta la sua storia assurda va al diavolo. Ma che cosa rimane? Quando -è lo stesso Hochhuth che parla- "i sogni di un cielo rifiutano all'uomo la risposta e il rifugio"; quando "la filosofia della storia tace senza un'eco alla nostra ineludibile domanda; se le nostre consolazioni sono inconsistenti e insufficienti, addirittura indegne, di fronte alla fossa di scheletri che il mondo, nel suo girare su se stesso, si lascia dietro, indifferente nei confronti dell'individuo come la pialla di fronte ai suoi truccioli"; se "tutto ciò che viene pensato è solo chiacchiera, cicaleccio"? Rimane l'esempio umano, rimane la fiducia nella forza illuminante della storia dell'ingiustizia rimossa, che Hochhuth ha messo in scena nel suo ritratto del "terribile giurista"; rimane la speranza che il pericoloso lavoro della memoria e l'inquietante archeologia sociale diano comunque agli uomini marginalizzati, privi di un volto e di una storia, il loro diritto - così come accade a quel prigioniero di guerra polacco sotto la barbarie nazista, che amava una donna tedesca, esponendo così al rischio del patibolo non solo se stesso ma anche lei (come si legge nel racconto "Un amore in Germania"). Rimane la speranza che la parola "amore in Germania" perda l'aura del sarcastico, perché finalmente in questo paese è diventato possibile vivere un amore che superi i pregiudizi e l'odio di razza e di classe. Rimane appunto una maniera umana di pensare, che rifiuta di vedere nelle generazioni che se ne sono andate nient'altro che dei "battistrada" (Schrittmacher) e dei "gradini" (Leitersprossen) per le generazioni future - una concezione per la quale Hochhuth "indubbiamente si avvicina a quel Gesù ... che ha portato nel mondo la legge dell'amore del prossimo e della misericordia". "Chi è Dio?" chiede Arthur, il paralitico del Vietnam, alla sorella Judith. E lei risponde: "Chi è Dio, nessuno lo sa ma dove egli sia lo vede chiunque, nel prossimo che egli certo non ha creato perché gli uomini lo eliminino". In summa: un'opera piena di problematiche religiose senza annunciare messaggi religiosi; un'opera piena di fondamentali questioni etiche, che non proprone ricette moralistiche; un'opera popolata di figure cristiane che non scade in una sorta di letteratura edificatoria. Un pensiero, piuttosto, che non va classificato né come religioso né come filosofico e che si affida perciò al libro e alla scena perché non ha ancora trovato soluzione per i suoi problemi. Un pensiero che propone eroi fittizi, proprio per mostrare attraverso loro, posti in situazioni estreme, il pro e ilcontro delle questioni. Un'operache ci rende tutti consapevoli che la nostra buona coscienza, spesso, è stata ottenuta con la scelta di non voler vedere, che la certezza della nostra identità, spesso, riposa su un passato rimosso e che l'indifferenza religiosa è stata resa possibile dal disinteresse. Ma anche un autore che, malgrado tutto, ha fiducia nella possibilità di far luce, e che tiene fermo il significato della memoria, della coscienza e dell'azione liberatrice. Drammaturgia storica come profilassi contro il cinismo! 23

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