verso la realizzazione di opere pubbliche che servano anche al contenimento della forte disoccupazione della manodopera agricola, "in attesa di verificarne, con l'emigrazione, il trasferimento verso il triangolo industriale, una volta che questo avesse potenziato la sua capacità produttiva e di assorbimento di manodopera". Uno degli effetti più duraturi della svolta degli anni Cinquanta è rappresentato dalla divergenza tra il piano di argomentazione teorico e quello politico, che introduce un elemento di schizofrenia nel dibattito politico. Un esempio è rappresentato dal dibattito sull'industrializzazione nel Mezzogiorno, assunto come un impegno imprescindibile dagli stessi enti di gestione statali e parastatali, ma del tutto disatteso in sede di politica economica. Le modalità di gestione della riforma democristiana, come mostrano le scelte compiute dalla Cassa per il Mezzogiorno, non muovono da una logica di libero mercato, ma da una concezione clientelare e assistenziale di sfruttamento delle risorse pubbliche, accentuando in tal modo la dipendenza meridionale tanto dal sistema di mercato settentrionale quanto dall'invadente presenza degli apparati di gestione statali. L'elemento specifico di questo sviluppo è rappresentato dal ruolo di predominio ricoperto dagli apparati burocratici. OsservaMassullo che, per inseguire "il doppio obiettivo di attribuire allo Stato il coordinamento e il controllo dell'intervento in settori chiave dell'economia e di consolidare il consenso attorno ad essa per mezzo dello scambio politico, la democrazia cristiana aveva fatto di quest'ultimo il veicolo privilegiato per il conseguimento del primo". Il mezzo era diventato cioè lo scopo: l'espansione di un'economia di mercato meridionale veniva sacrificata al consolidamento del consenso su basi moderate e clientelari. L'articolo che ·stiamo esaminando si arresta ai margini di questa vicenda; le sue coordinate, tracciate dai tempi della riforma agraria, non oltrepassano la soglia degli anni Cinquanta. Da qui Massullo ha però modo di scorgere i lineamenti del nuovo blocco di potere tra l'industria settentrionale e il ceto politico-amministrativo di stampo clientelare meridionale che dominerà la scena nei decenni successivi. A questo punto non si può che condividere il suo giudizio conclusivo, secondo cui con il completamento del ciclo di riforma fondiaria "è stata superata l'identificazione tra questione meridionale e questione agraria". È infatti evidente che con la politica di investimenti avviata dal governo dal principio degli anni Sessanta il flusso di risorse si sposta dal settore agrario al terziario e di conseguenza dalle campagne verso la città. Nel solo decennio 1956/65 gli impegni in opere infrastrutturali assunti dalla Cassa per il Mezzogiorno scendono per i settori agricolo e industriale dal 63,5% al 44,3% della spesa totale. Le conseguenze di simili scelte, com'è ovvio, si ripercuotono sui modelli non solo politici, ma anche culturali e sociali dell'Italia contemporanea. Ciò nonostante gli studiosi di storia si mostrano assai poco interessati al mutamento di prospettiva che investe la problematica meridionalista. Siamo partiti dalla Storia del 'agricoltura italiana Marsilio: a prescindere da isolati spunti di riflessione e dall'ottimo contributo su cui ci siamo soffermati, anche in un'opera di mole così imponente i problemi legati alle vicende politiche ed economiche dell'ultimo mezzo secolo non sembrano argomenti degni di attenzione. Per altro neanche Massullo, a quanto mi risulta, fa lo storico di professione, mentre gli interventi sulle vicende degli ultimi anni sono generalmente affidati a economisti, antropologi o studiosi di scienze sociali. La sensibilità degli storici italiani, rivolta ormai quasi esclusivamente all'Ottocento, oscilla tra un prevalente istinto all'erudizione accademica, un ritorno di interesse per approcci microstorici e il mai sopito desiderio di quieto vivere. In questo caso poi il disinteresse ostentato nei confronti del presente e del passato prossimo appare ancora più grave in quanto il problema meridionale è, per sua natura, un problema di natura storica. Ora, uno dei meriti di questa Storia dell'agricoltura è costituito dalla sconfessione dello stereotipo del Mezzogiorno immobile. Se, come afferma Bevilacqua nel primo volume, agli storici "non è dato affondare lo sguardo verso le frontiere dell'avvenire", ad essi è però imposto uno sforzo di interpretazione delle linee di tendenza di tale modello di sviluppo. Mai come in questo caso inoltre le vicende del passato forniscono utili grimaldelli per interpretare il presente. A partire dagli anni Sessanta il profilo meridionale è segnato dallo spostamento di ampi strati della popolazione verso le città e dalla smisurata crescita del settore terziario. Entrambi i processi, che come si è visto si realizzano nella fase di passaggio dalla società rurale degli anni Cinquanta a quella postindustriale degli ultimi decenni, trovano origine nelle scelte compiute nel ILCONTESTO dopoguerra da un ampio schieramento di forze moderate e consentono un processo di sviluppo adeguato agli squilibri del paese. Sono dunque il riflesso di una modernizzazione controversa che ha separato, anche sul piano sociale, i destini del Nord da quelli del Sud. Ciò è particolarmente evidente se si esamina la fisionomia verso cui tende nel Mezzogiorno l'occupazione nel terziario. Innanzitutto qui, a differenza che al Nord, la terziarizzazione è avvenuta a scapito dell'industria più che dell'agricoltura, dato che quest'ultima conserva indici occupazionali largamente superiori a quelli delle medie europee. Ma soprattutto (per riprendere un'osservazione svolta da Barbero e Marotta in un saggio del terzo volume della Storia dell'agricoltura), mentre nel Centro-Nord l'espansione è prevalentemente indirizzata verso i settori del "terziario avanzato", nel Sud l'accrescimento riguarda soprattutto la pubblica amministrazione e il terziario tradizionale, rappresentato dal commercio e dai pubblici esercizi. La burocratizzazione del ceto medio meridionale avviene dunque sotto la spinta dell'appropriazione da parte dello Stato di tutte le principali leve di gestione della società e dell'economia, secondo lo schema di capitalismo assistenziale che guida la modernizzazione meridionale. A questo principio viene ricondotta anche la politica di industrializzazione, orientata a cominciare dalla fine degli anni Cinquanta a favorire la creazione di grandi impianti a gestione pubblica ad elevata intensità di capitale e scarso assorbimento di manodopera. A lungo la storiografia comunista ha condiviso la responsabilità di questa politica, vincolando al tema dell'industrializzazione i destini della questione meridionale (di qui, per esempio, il silenzio connivente che è caduto su investimenti finanziariamente catastrofici come quelli per il rilancio dello stabilimento Italsider di Bagnoli). È tempo però di riconoscere, come fa Augusto Graziani nel volume su L'economia italiana dal 1945 a oggi, che da una simile scelta industriale non poteva nascere una nuova classe di borghesia industriale, ma uscire piuttosto consolidata "la classe dei burocrati amministratori, la così detta borghesia di stato, che agì essenzialmente quale strumento di conservazione". Per effetto di tali scelte la modernizzazione meridionale non ha favorito l'emergere di nuovi bisogni e di istanze di rinnovamento, ma ha ridotto l'area urbana a mercato di consumo improduttivo, determinando un sostanziale impoverimento del tessuto sociale. "Questa convivenza di modernizzazione apparente e di residuati socio-culturali del passato - riprendo un passo del già citato Rapporto 1990 della Svimez - è il terreno di coltura dell'assistenzialismo, della corruzione e della piccola e grande criminalità". Su queste basi si è affermato negli ultimi anni il blocco di potere politico-affaristico che governa la città del Mezzogiorno. La sua configurazione è stata esemplarmente descritta in un articolo di Ada Becchi pubblicato nel 1989 dalla rivista "Meridiana" e dedicato a Napoli, città simbolo della nuova questione meridionale. Il binomio politica-economia assume qui la fisionomia più significativa, espropriando gli organi istituzionali dalle funzioni di governo della città. Dopo aver esaminato le condizioni di questo connubio e le sue forme di riproduzione (tra le quali risalta naturalmente quella criminale), viene legittimo avanzare il sospetto che il sistema abbia raggiunto la piena autosufficienza: "dato il meccanismo da cui il parassitismo è alimentato, sia gli interventi speciali e straordinari sia la messa in valore delle istituzioni locali rischiano di configurarsi come modelli non accettabili per interventi di sviluppo". Vasta infatti è la convergenza di interessi che un modello di sviluppo parassitario è in grado di attivare, non esclusa naturalmente la complicità dei ceti intellettuali. La città meridionale è oggi il punto di incrocio della disgregazione sociale. È al suo interno che si sviluppa la metastasi di un apparato pubblico onnipresente, che si radunano le categorie improduttive e parassitarie, che si svolge la mediazione clientelare. Dall'efficienza o dall'inefficienza dei suoi meccanismi dipende il futuro del sistema di potere del Mezzogiorno. In un regime di "terziario parassitario", qual è ormai quello meridionale i costi della crescita improduttiva si riversano sulla città, la cui economia (come ha scritto Graziani in un articolo pubblicato nel 1987 con il titolo Mezzogiorno oggi da "Meridiana") è minata da strutturali fattori "di inefficienza e di sussistenza clientelare". Secondo le previsioni della Svimez nei prossimi 15 anni al Sud la popolazione aumenterà di oltre 800 mila unità (al Nord invece si ridurrà di 670 mila unità): 2/3 si riverseranno nell'area metropolitana di Napoli. Riusciremo a imprimere una svolta nuova a questo sviluppo? 17
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