Linea d'ombra - anno X - n. 72 - giugno 1992

IL CONTESTO Storia dell'agricoltura e questione meridionale Paolo Varvaro Non è più possibile considerare la questione meridionale in termini di questione agraria. Nuove prospettive di lettura sono state esplorate negli ultimi anni, ma soprattutto si è modificata la gerarchia dei settori produttivi. Basti considerare che tra il 1951 e il 1981 l'occupazione agricola meridionale è passata dal 56% al 24% dell'intera forza lavoro occupata. La riduzione dei livelli di occupazione agraria è naturalmente proseguita nell'ultimo decennio. Secondo i dati presentati dalla Svimez nel Rapporto 1990 sull'economia del Mezzogiorno, nel 1989 gli addetti all'agricoltura sono il 15%, contro il 23% dell'industria e il 61% del settore terziario; una media ormai vicina al dato nazionale, che per i tre settori presenta indici di occupazione rispettivamente del 9,3%, 32, I% e 58,6%. Ancora: negli ultimi quarant'anni la produzione agricola nazionale è aumentata di oltre 2 volte in termini reali e la produttività per occupato di ben 7 volte. Ciò nonostante essa ha subito una caduta di peso all'interno del prodotto nazionale lordo, di cui rappresentava il 40% nel 1930, il 30%, nel 1951 e solo il 6% nel 1985. Ma il declino della società rurale può offrire utili spunti di riflessione sui processi di sviluppo in atto nell'economia italiana. Serivo questo articolo dopo avere letto il terzo volume della Storia dell'agricoltura italiana in età contemporanea curata da Piero Bevilacqua e pubblicata dalla Marsilio editori (3 volJ.,Venezia 1989-91), ed è di questa opera che voglio parlare. Giunta con questo volume (a distanza di appena due anni dal primo) a conclusione, la Storia dell'agricoltura di Bevilacqua può essere considerata come uno dei testi più significativi nel panorama della storiografia italiana degli ultimi anni. I suoi innegabili meriti non devono però impedire di guardare ai limiti presenti nell'impostazione dell'opera, sui quali intendo soffermarmi in queste pagine. Ritengo che il principale limite sia rappresentato proprio dalla visione del declino della società rurale. Scrive Bevilacqua nella prefazione che questa storia dell'agricoltura giunge in libreria "quando ormai quell'agricoltura è morta: nella fase cioè in cui un suo modo millenario di essere e di funzionare è stato travolto e il suo peso sociale e culturale nella vita del paese appare fortemente ridotto, disposto lungo una linea di crescente declino". A tale considerazione si attengono quasi tutti gli studiosi chiamati a collaborare: il loro sguardo è rivolto all'indietro, secondo una visuale che privilegia l'idea della frattura alla ricerca della continuità. È proprio questo l'aspetto che meno convince nell'impostazione dell'opera. L'anacronismo che contrassegna la raffigurazione del mondo agrario si trasforma in una forma di compiacimento antropologico nei confronti degli archetipi del passato, lasciando invece in ombra gli effetti strutturali di un modello produttivo ancora largamente diffuso; ossia i fattori di lunga durata dello sviluppo italiano. Non a caso i saggi migliori sono quelli che privilegiano l'impostazione mieros torica e di storia sociale - segnalo soprattutto le indagini di Maurice Aymard sul circuito del grano; di Augusto Placanica su usure, caparre e contratti del mondo agricolo meridionale; di Gérard Deli!Jesulla famiglia contadina nel!' Italia moderna; di Carlo Fumian sulla figura dell'agronomo-mentre assai più scarsa è l'attenzione dedicata agli aspetti dell'organizzazione produttiva e all'incidenza delle vicende proprietarie sui sistemi politici ed economici dell'Italia contemporanea. La stessa struttura latifondiaria, cui è dedicato un brillante saggio di Salvatore Lupo, è esaminata per i riflessi sulla mentalità e sulla cultura della società ottocentesca più che per i suoi coefficienti di natura economica e politica. Nel latifondo, al di sotto della corteccia del progresso, è riconosciuto "il cuore, la metafora di un'Italia tradizionale, profonda e antica, sulla cui persistenza alle soglie del secolo XX i contemporanei non possono non interrogarsi". Da questo punto di vista le vicende dell'agricoltura, invece di riportare in evidenza la filigrana della storia dell'Italia contemporanea (tanto in relazione ai processi produttivi che a quelli dirigenti), sono ridotte al loro valore specifico, secondo un metodo di interpretazione adeguato nel mettere in luce le specificità di un fenomeno, ma a disagio quando deve recuperare i fili profondi della continuità. Affiora così di continuo l'iniziale ipotesi del declino. Come sostiene uno dei collaboratori-(senza però mostrare come e perché ciò sia avvenuto), "bisogna semplicemente prendere atto che la società rurale italiana è una entità storicamente dissolta". La propensione per schemi di interpretazione deboli e la fuga dal presente sono due attitudini della storiografia italiana degli ultimi anni. Basterà notare il tramonto del genere del reportage e dell'inchiesta sul campo, un tempo esercitazione giornalistica congeniale per il mestiere di storico (memorabile l'uso che seppe fame Salvemini). Per contro la predilezione per modelli di ricerca accademica e l'utilizzazione di un repertorio di conoscenza tecnica è oggi il segno di una istintiva reticenza a descrivere le cose per come sono. E comunque, lo ricordavo all'inizio, la questione agraria non si declina più come questione meridionale. Eppure, consultando i voluminosi tomi della Storia dell'agricoltura italiana Marsilio, si rimane sorpresi di fronte alla laconicità riservata a temi quali la politica protezionista, le leggi di indirizzo economico, il ruolo della Cassa del Mezzogiorno; nemmeno un accenno è dedicato alla controversia sui modi dell'industrializzazione e dell'accumulazione agraria avviata da Romeo nei confronti della tesi gramsciana. L'attenzione è quasi sempre circoscritta all'universo contadino in termini di realtà chiusa (da cui, appunto, la nozione del declino), con scarsa sensibilità per la rete di relazioni che esso è in grado di attivare nel tessuto della società civile e delle istituzioni. Una simile pluralità di piani, beninteso, non è ignorata di proposito; lo testimonia la consapevolezza, enunciata da Bevilacqua nell'introduzione del terzo volume (dedicato ai mercati e alle istituzioni), che "la vicenda del movimento contadino disvela e ricorda, con le parole di verità di cui la ricerca storica è capace, la trama aspra e sanguinosa dei conflitti su cui la democrazia è stata faticosamente conseguita". Una consapevolezza che tuttavia stenta ad affermarsi nel corso della ricerca. A voler cominciare la recensione dall'indice analitico si ricaverebbe la sensazione di una rimozione ancor più diffusa: il termine "protezionismo" dispone in tutto di tre rimandi, "emigrazione" ricorre sette volte, "questione meridionale" solo una. Ma l'indice analitico induce spesso in Foto di FoscoMaraini (da Civiltàcontadina, De Donato 1980). 15

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