ILCONTESTO menti del passato, ma alla volontà di Gesù Cristo. Il che implica una salutare rottura della continuità. La chiesa non è un corpo sociologico che deve vivere secondo la logica bergsoniana delle società chiuse, deve vivere secondo uno slancio vitale che implica delle rotture. Paolo VI si è trovato alla soglia della rottura, ma non l'ha compiuta e questo ha influito imprimendogli una spinta regressiva. Questa fase postconciliare è da collocare nella mia progressiva scoperta della simmetria tra due processi: questo della involuzione di Paolo VI, dovuta alla sua fedeltà a una certa idea di continuità e ad una visione del mondo di stampo ecclesiocentrico, e l'altro della esperienza storica del vincolo che legava la chiesa, vuoi in America latina e vuoi nel Vietnam, alle strutture dell'imperialismo. Uso questo termine senza trapiantarlo in modo meccanico dal lessico politico-economico. Tra le denunce contro la chiesa emerse nel '68 (esse mi hanno colpito profondamente perché rispondevano a ciò che io andavo sospettando) mi sembrò degna d'attenzione quella secondo la quale in molte parti del mondo la chiesa funziona da apparato ideologico del sistema capitalistico, e finché non rompe questi legami - che sono culturali, prima che volgarmente politico-economici - non le è possibile compiere la sua opera di evangelizzazione. È un nodo essenziale, questo. La nuova posizione di Balducci- la "svolta antropologica", come lui stesso la chiamava - è espressa oltre che nei numerosi articoli su "Testimonianze", nei volumi Il terzo millennio (Bompiani), e poi più compiutamente in L'uomo planetario ( Camunia) enell'ultimissimo La terra del tramonto edito dalla casa editrice che Balducci aveva fondato negli ultimi anni: Edizioni della pace. Sentiamo da lui stesso i motivi di questa svolta. Essa è dovuta al concorso di di verse cause, alcune intraecclesiali. Ad esempio, essa è dovuta alla scoperta, sempre più amara, che i tentativi di rinnovamento della chiesa e i tentativi di rinnovamento della vita religiosa (parlo dei tentativi di autoriforma) cadono per lo più nel nulla. Mi sono accorto, ben presto, che la causa dell'immobilismo era proprio la dimenticanza di ciò che non entrava mai nel nostro raggio visivo: la "pianta Uomo". Era cambiata la "pianta Uomo", per così dire. Anche il problema della vita religiosa, con i suoi impegni- lapovertà, lacastità, l'obbedienza - mi è sembrato sempre più male impostato. Il nocciolo profetico della vita religiosa è il suo statuto evangelico, non quello medievale o delle categorie religiose. Che significano oggi "obbedienza", "castità" e "povertà"? Sono una tripartizione dellafaga mundi, non della profezia. Una tripartizione che presuppone una struttura immutabile dell'uomo. E invece quel che sta cambiando oggi è proprio la "pianta Uomo". La figura del prete ha valore finché agisce sul piano antropologico l'istinto del padre, il bisogno del padre. Ma in una società senza padri? Insomma mi accorgevo che dentro i fenomeni degenerativi della chiesa non c'erano cause direttamente ecclesiali, c'erano cause antropologiche. Queste cause mi si sono fatte sempre più chiare alla coscienza, quindi ho capito che anche nel trattare i grossi problemi della chiesa, della vita religiosa, della sua possibilità di sopravvivenza bisognava spostare il discorso altrove. In questi venti anni si è generalizzata l'integrazione tecnologica della società, l'espansione ruggente, spietata dei modelli tecnologici soprattutto a livello dei mass-media. Si è fatto, così, sempre più acuto in me il problema della libertà dell'uomo, contro cui le minacce non sono più quelle di ieri, sono nuove. Lo vado constatando perfino a livello del colloquio con le coscienze. I miei contatti con le generazioni susseguentisi mi hanno dato la possibilità di misurare il processo del cambiamento. Sulla linea del processo tecnologico che ha accompagnato la rivoluzione industriale è accaduta una cesura grave. Quel progetto è fallito. Molto hanno voluto dire per me i segnali, documentati nel mio libro /I terza millennio, venuti, all'inizio degli anni Settanta, dalle stesse centrali di osservazione sociologica, come il Club di Roma o l'Istituto di Tecnologia del Massachussets. Essi hanno messo in luce il crescente disagio proprio in quegli ambienti dove lo standard tecnologico era più alto. E finalmente lo scatenamento delle dinamiche nucleari ha risvegliato in me il tema della pace che, anche per ragioni storiche e autobiografiche, mi è sempre stato caro e presentissimo. Tutto questo mi ha portato a comprendere sempre di più che i I tema della pace - siamo così negli anni Ottanta - non è un tema fra i temi, è il tema di unificazione della crisi 14 antropologica del tempo, di riscoperta delle dinamiche della violenza di cui la congiuntura atomica è solo l'esplosione collettiva ultima. C'è una cultura della violenza che ha divorato anche la predicazione cristiana. Di qui è nato con forza in questi anni Ottanta - ed è l'identikit di questo decennio, per quanto mi riguarda - il tentativo di ricondurre l'analisi della società, in cui vivo la mia fede, a una matrice evangelica, intesa evidentemente non quale progetto politico di immediato consumo, ma quale prospettiva profetica, come tale non ideologizzabile né traducibile in filosofia, anche se capace di sollecitare e di stimolare progetti politici e riflessioni filosofiche. In questo senso va la mia lettura del vangelo come annuncio della società non violenta. Questa nuova posizione muta anche gli interlocutori e gli amici, ma ormai, negli ultimi anni, è il tema della pace quello a cui dedica tutta la sua attenzione e tutto l'impegno. Ma questa tensione per la pace è possibile, per il padre scolopio, solo attraverso una grande laicità. È questa la conclusione di unpercorso che, almeno da questo punto di vista, era partito proprio dagli antipodi, dalla volontà di costruire una nuova cristianità. Intanto il discorso della fondazione della laicità a partire dalla prospettiva che è la mia, quella di credente, è ancora da realizzare. E poi, del resto, tutto si tiene. Il discorso cristiano oggi va fatto a partire dall'uomo, come avviene nella teologia protestante dopo Barth, capovolgendo la prospettiva teocentrica per porre l'accento sull'uomo come protagonista della sua storia, senza alienazioni religiose, addirittura sull'uomo post-religioso, che vive come uomo adulto, cioè assumendosi la responsabilità del mondo "senza Dio davanti a Dio", per ripetere uno slogan di Bonhoeffer, che andrebbe esplicitato con più delicatezza. Sono convinto della necessità di questo capovolgimento antropologico del discorso cristiano, che faccia centro sull'uomo e su Gesù Cristo come uomo e come sacerdote secondo Melchisedec, e non sul Cristo fondatore di una religione. C'è una pars destruens della teologia che è ancora in corso, ed è così delicata che mi guardo bene dal portarla a termine con degli scossoni. Sono comunque convinto che quello della laicità, per gente come me che viene da un lungo tirocinio ecclesiocentrico, quindi con una latente presunzione di riunire il mondo sotto la chiesa, facendone un solo ovile e un solo pastore - per ripetere fraseologie correnti - è un compito immane. Se esso non viene affrontato secondo un'ottica di fede, si compie per conto suo, con un secolarismo radicale, dove perfino la memoria della fede scompare. Sono convinto che il cristianesimo ha in sé la capacità di fondare la laicità, addirittura si potrebbe anche dire che storicamente la laicità è una invenzione cristiana. Il punto debole delle religioni non cristiane, per le quali ho la massima ammirazione, come l'Islam, è che non sanno accettare ciò che vi è di positivo nel concetto dello Stato di diritto, la possibilità di convivere dentro uno stesso ordinamento di uomini di diversa professione religiosa, di diverso atteggiamento ideale senza che questo crei discriminazioni di ordine giuridico. È questa l'impotenza delle religioni. Anche il cristianesimo - intendiamoci - che pure ha prodotto dentro di sé questa antitesi a se stesso - non mostra oggi molta capacità di garantire la laicità. Quando parlo di laicità penso ad alcuni aspetti emergenti nella storia del tempo. Non credo che sia possibile dettare le norme giuridiche planetarie di questa laicità. La convivenza umana può organizzarsi nelle forme più diverse. Intanto possiamo registrare alcuni segni positivi nel quadro della coscienza comune, come i meccanismi di solidarietà che stanno esplodendo - in questo periodo abbiamo il caso del Sud Africa - a livello internazionale, per tutti i casi-e sono infiniti- in cui proprio la dignità dell'uomo in quanto tale viene violata o per pregiudizi razzistici o per pregiudizi religiosi. Siamo proprio nel cuore di una dialettica di dimensioni mondiali, ma vedo che passi in avanti verso la laicità, nonostante qualche regressione, si stanno facendcl. Anche nel costume. La coscienza cristiana più sveglia è quella che più vorrebbe superare i rapporti concordatari come relitto di un'epoca non laica. Volere la laicità cresce nella misura in cui cresce la cultura della pace: volere la laicità come organizzazione giuridica di garanzia delle coscienze, senza aver creato una cultura in cui sia abolita l'idea del nemico, in cui diventi costume il riconoscimento dell'uomo da parte dell'uomo in virtù della comune umanità, significa volere la luna nel pozzo.
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