Linea d'ombra - anno X - n. 72 - giugno 1992

Contro le supposizioni curiali, non si trattava di un gruppo di accoliti che si sarebbe , disperso non appena il pastore fosse stato allontanato. La rivista conobbe, anzi, una vitalità crescente in quei primi anni '60. Sarebbe interessante un'analisi sociologica del pubblico di "Testimonianze", ma, a occhio, i lettori erano in gran parte appartenenti al mondo ecclesiastico e ai gruppi di Azione Cattolica, dato che allora il fenomeno dei gruppi spontanei era pressoché inesistente. La rivista ebbe il suo apice quando ci fu l'esplosione dei gruppi spontanei, negli anni attorno e subito dopo il concilio. La diffusione fu tanto più ErnestoBolducci in una foto sorprendente, in quan- di Giovanni Giovannetti. (Effigie). to non avevamo alcuna organizzazione propagandistica, proprio nessuna in assoluto. Arrivò verso le I0.000 copie. Contemporaneamente si inasprì un meccanismo di repressione: la revisione ecclesiastica fu più tormentosa e intenzionalmente defatigatoria. Il fatto notevole è che la rivista non aveva alcuna sovvenzione. Si viveva anche utilizzando il volontariato caritativo che intercalava il pacco da regalare a un povero e la correzione delle bozze, la spedizione e così via. È di questi anni anche il rapporto con don Milani, un rapporto difficile per la grande diversità delle due personalità, come testimoniano queste affermazioni di Balducci dette con estrema sincerità. Lo avevo incontrato diverse volte, fuggevolmente. Milani viveva in una puntigliosa solitudine, non amava frequentare gruppi, e non amava essere frequentato. Il rapporto con don Milani doveva sempre mettere in conto l'imprevedibilità del suo temperamento. Il primo momento pubblico del nostro rapporto fu appunto un mio articolo in difesa di Esperienze Pastorali apparso su "Testimonianze". Molti dei giovani del Cenacolo e di "Testimonianze" avevano rapporti con lui e a sua volta lui mandava di tanto in tanto in montagna i suoi ragazzi con il mio gruppo. Dopo il mio processo per l'obiezione di coscienza desiderò che io ne parlassi ai suoi giovani prima ancora che scrivesse la famosa lettera ai cappellani mi litari. E ne parlai in un incontro all'aperto con la scuola di Barbiana. Gli fui vicino nelle sue battaglie, per esempio, in difesa di don Borghi nell'ottobre '64. Il vescovo Florit mise don Borghi e don Mii ani dinanzi ali' aut aut: o andare fuori diocesi o essere sospesi a divinis. Di fronte a questo diktat di Florit mi mossi personalmente e feci arrivare a Paolo VI, tramite mons. Dell'Acqua, una lettera in cui lo mettevo al corrente di quello che stava per accadere a Firenze. Fu allora che Paolo VI inviò rapidissimamente mons. Franco Costa a parlare con Florit e con l'incarico di recarsi anche da don Bensì per portare centomila lire di offerta per la scuola di don Milani. Stavo a Roma, allora, e feci da tramite in questa iniziativa. Negli atti pubblici di Milani, anche nella lettera che scrisse contro Florit, ci sono apprezzamenti positivi nei miei riguardi. Sicuramente egli condannava in me la disponibilità al dialogo in tutti gli ambienti, borghesi o non borghesi. Una volta, al Cenacolo, ci fu un confronto estemporaneo ma molto lungo con un gruppo di noi (io stetti da parte ad ascoltare) per sostenere la tesi (con forza unilaterale, a mio giudizio, e con apparente settarismo) che la carità fatta a tutti non ha IL CONTESTO significato, occorre non occuparsi che di quei pochi che abbiamo nel nostro spazio vitale, come lui faceva con i suoi ragazzi. Per lui - così almeno diceva- il mondo finiva a 300 metri. Il suo linguaggio - che va decodificato, se si vuol cogliere il suo messaggio positivo - denotava la sua difficoltà a capire altre esperienze che non fossero quelle della scuola. Quello che io non approvavo (e lo dissi nel mio articolo del '58) era questa assolutizzazione del momento scuola e più in genere del momento concettuale e verbale della cultura, con assoluta disattenzione nei confronti di quel momento di esperienza cristiana che poteva essere la liturgia. È vero che il mio discorso era astratto e fuori tempo: la liturgia di allora dava poche possibilità formative. Non c'erano ancora le comunità di base né la liturgia in volgare. La tesi che io sostengo in un articolo successivo (che è poi la registrazione di una conferenza pronunciata nel terzo anniversario della sua morte) è che Milani compiva una scissura metodologica, che mi richiamava alla mente la scissura compiuta da Cartesio fra il discorso sulla morale e sulla politica - nelle quali egli rimaneva alla tradizione, senza metterle in questione almeno per il momento - e il discorso sul metodo, cioè il discorso di ricostruzione della realtà a partire dalle idee chiare e distinte. Allo stesso modo Milani accettava la chiesa così come è nelle sue strutture, anche nella sua liturgia, per poi avere più libero campo nello spazio che per lui era veramente il punto archimedico per cambiare l'universo, la scuola. Con lafine degli anni Sessanta l'orientamento culturale e politico di Balducci muta profondamente. Non solo il concilio, ma gli eventi politici e culturali della fine di quel decennio distanziano il padre scolopio non solo da La Pira, ma anche da un certo progressismo èattolico ancora ecclesiocentrico. Un mutamento che si può verificare anche nei confronti di Paolo VI con cui Balducci ebbe rapporti molti intensi sia prima dell'elezione a vescovo di Roma che dopo. In lui ebbe un sicuro difensore sia nei confronti del Sant'Ujfi.cio che del vescovo di Firenze mons. Florit. Tuttavia dopo il concilio Balducci restò disilluso dall'azione di papa Montini eprese un atteggiamento sempre più critico (come del resto verso la sintesi di Maritain). Mi accorgevo di fatto che in Montini l'ispirazione evangelica, non discutibile, si mescolava con strutture culturali che potremmo dire latamente maritainiane, di cui egli sembrava non percepire il valore strumentale nei confronti del messaggio evangelico. Una di queste strutture culturali discutibili è quella di legge di natura che ha avuto un ruolo così importante nella soluzione del problema anticoncezionale data nell 'enciclicaHumanae Vitae. La stessa procedura del suo pronunciamento dette il segno che ormai la prospettiva di una trasformazione della chiesa secondo le forme collegiali era messa in archivio. Posso tentare di spiegarmi. Da una parte Montini era un raffinato uomo di cultura, piuttosto singolare per il mondo ecclesiastico italiano. Era dotato di una squisita sensibilità per quanto riguarda la poesia e l'arte in genere; era anche di vaste letture. Penso di poter dire che il suo luogo culturale più specifico era la Francia. Montini non ripeteva certe cose in modo libresco, le aveva vissute, sofferte. Solo che Montini non è mai uscito dalla galassia ecclesiocentrica. Una delle spinte a certe mie scelte culturali, pastorali, politiche è dovuta anche alla percezione che Montini era rimasto in un vicolo cieco dal punto di vista culturale e dal punto di vista teologico. L' Ecclesiam suam, ad esempio, prospetta un rapporto di dialogo - e questo è il suo aspetto positivo - tra il credente e il mondo in una serie di cerchi concentrici al cui centro c'è la chiesa. Questa centralità diventava, più di quanto non apparisse, una specie di ratifica della visione della storia della chiesa contrassegnata dalla continuità, da una continuità che, nonostante il cambiare delle forme, implicava la difesa a oltranza di certi filoni portanti della tradizione. Ad esempio, sono sicuro che per quanto riguarda il problema dei mezzi anticoncezionali Montini si è sentito vincolato da questo senso del dovere nei confronti di un insegnamento continuo nella Chiesa. Ma la rivoluzione del concilio è stata compiuta quando al centro dell'aula conciliare è stato posto il vangelo. Un gesto, mi permetto di dire, "luterano", perché al concilio di Trento non c'era il vangelo al centro. Questacentralitàdel vangelo significava, come del resto Paolo VI sembrò dire nel discorso di apertura della seconda sessione del 29 settembre 1963, che la chiesa doveva interrogare se stessa non riferendosi ai suoi docu13

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