28 VISTA DALLA LUNA drone", sempre colui che aveva la macchina e che, se incontrava un contadino a piedi, benevolmente si degnava di fermare l'auto per dargli un passaggio. Constatavo così, giorno per giorno, il tradimento del mio sacerdozio: inviato a servire i poveri, al massimo potevo continuare l'assistenzialismo che m'era stato chiesto prima, nel ricovero. In quanto ali' evangelizzazione, la gente era tutta proiettata alla ricerca d'un lavoro nell'industria, d'una casa nella città e della propria fetta di benessere: non aveva quindi tempo e "cuore" per il messaggio di Cristo. · La macchina, simbolo umiliante della mia condizione privilegiata, dovevo averla perché insegnavo in città. Anzitutto insegnavo storia della filosofia nel seminario maggiore. Mi ci avevano mandato benché storia della filosofia l'avessi studiata soltanto al liceo. La cosa, dapprima, m'era apparsa strana e poco seria. Poi avevo scoperto che la nomina era dovuta a un gioco di corrente svoltosi nella curia fiorentina, gioco condotto da amici per fare entrare dalla porta di servizio colui al quale era stato sbarrato l'ingresso principale: avrei infatti dovuto insegnare teologia dogmatica, ma qualche rivale mi aveva denunciato ai superiori come "modernista, esistenzialista e immanentista". Gli alunni erano in genere aperti e vivi. Il discorso passava facilmente dalla storia della filosofia alla storia della teologia, e nel clima di colloquio che avevo instaurato emergeva tutta la problematica della vita di seminario: la direzione spirituale, la liturgia, la disciplina, l'impossibilità di un'autentica maturazione umana, ecc. Come cresceva la mia simpatia per gli studenti, cresceva anche il mio disagio di coscienza per quell'incarico al quale non mi sentivo preparato e che mi sembrava disonesto conservare. Fu così che detti le dimissioni, e mi risulta che il vescovo le accolse di buon grado. Oltre alla storia della filosofia in seminario, insegnavo religione in un liceo. Anche lì mi ci avevano mandato. E anche lì cominciai ben presto ad avere grosse perplessità. Qual era la mia reale funzione? Ero il professore di teologia? Ma allora bisognava: primo, che ci fossero programmi più razionali; secondo, che ci fossero libri di testo più seri; terzo, che avessi a disposizione ben più di un'ora alla settimana; quarto, che la materia fosse vera- . mente opzionale, poiché in ultima analisi si trattava della conoscenza della fede, la quale richiede una libera scelta dell'individuo. Oppure ero semplicemente !'"assistente spirituale", il cappellano dell'istituto? Ma allora bisognava che stessi a disposizione degli alunni senza essere un professore, un'autorità, uno che doveva decidere con gli altri insegnanti dell'avvenire scolastico dei giovani. In breve, a causa della posizione ambigua e della mancanza di strumenti sia per l'una che per l'altra funzione, mi dimisi anche da questo incarico. Ma lì, al liceo, quasi per sbaglio, o grazie allo Spirito Santo, era avvenuta l'esperienza che ritengo più importante e più sconvolgente della mia vita. Vi avevo trovato una languente Conferenza giovanile ·di san Vincenzo, e la curia m'aveva imposto di ravvivarla. Dopo un po' di resistenza, dovetti cedere e avvertire le classi che quell'ente assistenziale riprendeva le attività. Alla prima riunione c'era una moltitudine di alunni. I vecchi soci cominciarono a programmare: tanti membri, tanti denari, tante famiglie da soccorrere. A questo punto persi le staffe e dissi pressappoco: "È l'ora di finirla di strumentalizzare i poveri per mettere a posto la propria coscienza di borghesi. Non basta portare mille lire al mese a un bisognoso, bisogna mettersi nei suoi panni, condividere la sua situazione, lavorare insieme a lui per una società senza diseguaglianze. Anziché umiliarlo con l'elemosina, bisogna buttarsi in ginocchio dinanzi al povero, fargli prendere coscienza della sua dignità, servire la sua crescita umana, collaborare con lui perché diventi il protagonista della vita sociale. Avete mai riflettuto sul misteEDUCATORI E DISEDUCATORI ro del povero?" E raccontai la parabola-o la profeziadel Cristo re che premierà o punirà, che dirà ad alcuni: "Avevo fame e mi avete sfamato, ero senza tetto e mi avete ospitato, ero carcerato e mi avete visitato ..." e ad altri: "Avevo fame e non mi avete sfamato ...". Sia gli uni che gli altri gli domanderanno: "Quando mai, Signore, ti vedemmo affamato, senza tetto, incarcerato ...?". E Cristo risponderà: 'Tutte le volte che avete o non avete fatto queste cose ai più piccoli dei miei fratelli, le avete o non le avete fatte a me". Poi aggiunsi che al giorno d'oggi l'amore per il prossimo è anzitutto giustizia, se non vuol essere ipocrisia. Questo mio discorso decimò i membri della Conferenza. Quelli che restarono presero a cuore la situazione di pochissime famiglie cercando soluzioni definitive ai loro problemi. Ma soprattutto ci mettemmo a leggere la Bibbia ed entrammo in contatto con esperienze cristiane particolarmente significative come i Piccoli Fratelli di Gesù. Scoprimmo che Dio è Amore, che ci ha amati per primo, che per dimorare in Dio dobbiamo amarci fra noi. Scoprimmo il volto della chiesa nei lineamenti della primitiva comunità di Gerusalemme: una comunità unita dalla Parola, dall'amore vicendevole, dall'eucaristia; una comunità dove ci si sorregge reciprocamente e soprattutto si travasa ciascuno le proprie ricchezze, materiali e spirituali, in un patrimonio collettivo che ha nome di povertà, semplicità, umiltà, che in fondo ha nome Cristo. Scoprimmo che è nella comunione di ciò che siamo e di ciò che abbiamo che manifestiamo concretamente di possedere Cristo, o meglio di essere possedÙti da lui. L'appartenenza a Cristo elimina qualsiasi differenza: "Non c'è più né ebreo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina, perché voi tutti siete una cosa sola in Cristo Gesù" (Gal. 3, 28). Se non è puramente teorica e retorica, l'appartenenza a Cristo spinge a mettere tutto in comune: dalla comunione nello spirito nasce la comunione dei beni materiali, perché un fratello ricco non tollera più che un altro fratello sia povero ma si spoglia dei suoi averi fino a raggiungere l'eguaglianza con lui, che è una più profonda unione nel Cristo. La frase del Signore "Dove due o tre sono riuniti nel nome mio, ivi sono io in mezzo a loro" indica il punto di partenza e il punto d'arrivo di questa dinamica della fraternità cristiana . Ho detto che tutto ciò lo scoprimmo. Scoperta non solo intellettuale ma esistenziale. Fatta anzitutto in due periodi di soggiorno montano- uno molto lungo-e poi nel ritmo che demmo alla comunità, la quale in poco tempo arrivò a praticare qualcosa di analogo alla cosiddetta "revisione di vita" e la comunione dei beni. Ben presto essa fu arricchita dall'ingresso di alcuni operai. La loro presenza c'impose di smettere di leggere la Bibbia nelle lingue originali, ma ci portò un insospettabile senso del concreto. Fu così che la comunità, nata nel 1958, divenne tutta la mia gioia, tutta la mia vita, l'oggetto principale del mio lavoro, la spinta più forte per affrontare i miei problemi, che del resto erano ormai problemi di tutti. Diventò, la comunità, anche la mia spina più pungente, perché la curia pretese che io la sciogliessi convogliando i membri nel1'Azione cattolica. La ragione è che correvano le accuse più strane e più contraddittorie: che eravamo un'agenzia matrimoniale, che avevamo fatto il voto di castità, che avevamo abolito la p;eghiera (recitavamo i salmi!). Alla curia opposi un netto rifiuto, ma ciò significò l'inizio della nostra clandestinità e dello sforzo per cercare una soluzione positiva del conflitto. Non volevamo essere un istituto secolare, o comunque un' "organizzazione cattolica": volevamo essere semplici cristiani, nulla di più. Ci sembrò che la parrocchia, come cellula primaria della chiesa, fosse la situazione in cui potevamo trovare la nostra giusta presenza nella
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