MEDICI E PlllENTI detto aspecifico ma che tuttavia è fondamentale, in quanto ha a che fare con il riconoscimento dell'umano in quanto tale. La medicina, si sa, è una scienza perdente poiché tutti dobbiamo morire. Ma, considerata l'alta valenza emotiva che spesso caratterizza I' incontro medico-paziente, l'atteggiamento del medico può favorire quel miglioramento della qwilità della vita (sia in se stesso che nel paziente) di cui si parla tanto ma che proprio per questo è spesso diventata un mero oggetto di consum9 verbale. C'è una frase che è stata detta a proposito delle nevrosi ma che potrebbe essere applicata anche alle malattie organiche: "La nevrosi è infinitamente meno banale delle sue cause'. Questo perché coinvolge l'uomo nella sua interezza e diventa un modo di essere nel mondo. Certo, gli effetti della interazione non sono facilmente valutabili in termini quantitativi, anche se esistono (o comunque si potrebbero progettare) ricerche empiriche volte ad evidenziare il benessere soggettivo associato a certe modalità di rapporto. Essi sono comunque valutabili in termini di significato. Così come la condizione di malattia• si integra dentro un significato dell'esistenza - cioè dentro una visione spontanea, irriflessa, del mondo, che essa stessa contribuisce a creare ma che deriva altresì da innumerevoli altri apporti - allo stesso modo l'interazione medico-paziente, quando sottrae la situazione di entrambi a una condizione di finta astoricità, contribuisce a creare significati nuovi o a rinforzare significati esistenti. In conclusione, il rapporto medico-paziente è certo retto da un sentimento, ma è anche espressione di una visione del mondo, che può essere - a seconda dei casi - meccanicistico/utilitaristica oppure globalistico/comprendente (nel senso di Dilthey). 3. Vineis dedica un capitolo alla domanda circa la possibilità di dare una verifica empirica della efficacia della psicoanalisi. Pur riconoscendo le numerose difficoltà dell'impresa, sostiene alla fine che qualcosa si potrebbe e si dovrebbe fare. È su questo punto che io ho dubbi più consistenti di Vineis. Naturalmente, esiste un livello su cui è possibile argomentare nel senso indicato da Vineis. Per esempio, quando Freud sostiene che la cosiddetta censura interviene nella formazione del sogno e poi la gente sogna tranquillamente di fare all'amore con la propria madre, si può pensare che c'è qualcosa che non va nella teoria freudiana e che forse ha più ragione Jung a pensare che, come è scritto nel Talmud, "il sogno è la sua stessa interpretazione" e che la censura non c'entra niente. Del pari, si sa che per numerosi motivi non ci sono più antropologi disposti ad accettare la teoria dell'orda primitiva proposta da Freud. Ma tutto ciò ha poco a che vedere con l'efficacia della psicoanalisi. Mi rendo anche conto che l'impianto positivistico, cioè causale-riduttivo, della psicoanalisi freudiana (che è la sola cui Vineis fa riferimento) induca in tentazione, suggerisca cioè di andare a vedere se i nessi causa-effetto sono verificati. Tuttavia, è opinione di molti che la psicoanalisi classica funziona (quando funziona) malgrado il suo impianto riduttivo, così come del resto ci sono altri modelli analitici che di quell'impianto fanno largamente a meno. II problema allora si ripropone: è possibile verificare con i metodi della epidemiologia, o in altro modo, l'efficacia della psicoanalisi? A un certo punto Vineis usa la metafora del gioco per mettere in evidenza le "somiglianze di famiglia" fra le malattie e per sostenere alla fine che una qualche relazione deve pur esserci, per esempio, tra cardiologia e psicoanalisi. Vorrei utilizzare anch'io questa metafora per fare una prima osservazione. Se assumiamo la classificazione dei giochi proposta da Roger Caillois, potremmo dire che l'atteggiamento medico è fondamentalmente quello di chi gioca un gioco competitivo, poiché è fondato sull'idea che per riuscire è sufficiente essere competente e allenato (si muove cioè in una prospettiva volontaristica). L'atteggiamento dell'analista si avvicina invece di più all'atteggiamento di chi gioca un gioco aleatorio, un gioco in cui prevalgono cioè le componenti incontrollabili (si muove di più in ooa prospettiva fatalistica, che ovviamente non c'entra con l'impegno affettivo che l'analista pone nel suo lavoro). A questo punto però andrei più in là. Sia nei giochi competitivi che in quelli aleatori c'è una posta. Quale è la posta dell'analisi? La guarigione, verrebbe fatto di dire. E tuttavia a me sembra che in questo modo cadiamo in un automatismo linguistico che ci riporta nel1'ambito della medicina prima di aver discusso il problema. Un automatismo, va detto, che in qualche modo è giustificato dalla storia della psicoanalisi, che è cominciata come cura dell'isteria per mezzo delle parole. E difatti anche Vineis alla fine dà quasi per scontato che la psicoanalisi faccia parte della terapia medica. Se per un momento accettiamo di entrare nell'universo medico, e parliamo di terapia e di guarigione, dovremo allora parlare anche di malattia. Ma quale è la malattia che la psicoanalisi cura? L'isteria, la depressione, e così via? Di nuovo mi vengono dei dubbi. Per onestà, devo ammettere che questo equivoco è alimentato anche all'interno della psicoanalisi, giacché gli analisti, quando parlano tra di loro e ,anche quando scrivono, parlano di isteria, di sintomi, ecc. Ma in realtà ho l'impressione che si parla di questo perché è la sola cosa di cui si può parlare, mentre di ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Se non ci spaventiamo di espressioni che hanno una storia un po' compromessa, direi che nella psicoanalisi c'è un versante essoterico ed uno esoterico. O anche, come è stato scritto, che l'oggetto della psicoanalisi non è quella finzione chiamat~ nevrosi, bensì un essere umano disturbato nella sua totalità. Allora: malattia, cura, guarigione. Parole mediche. Ma la cosiddetta malattia non è l'isteria o l'ossessione, ma la perdita di significato esistenziale. Sorvolo sul tema della cura perché ci porterebbe lontano: tanto ·per usare una formula un po' provocatoria, si potrebbe dire che la cosiddetta cura è una specie di pellegrinaggio, piuttosto labirintico, alla ricerca del senso. E arriviamo alla cosidLATERRA 23 detta guarigione. In medicina la guarigione è la restitutio in integrum, il ritorno alla condizione premorbosa. Si può applicare questo concetto alla psicoanalisi? Direi di no, non fosse per il fatto che la condizione precedente, non identificabile in uno o più eventi particolari, è proprio quella che ha condotto il paziente nello stato di estraniazione da sé in cui si trova. La verità è che né l'analista né il paziente sanno dove il cammino comune li condurrà. E difatti, piuttosto che di guarigione, sarebbe più opportuno parlare di trasformazione. Gli esiti di questa trasformazione possono essere i più vari, e possono andare- per esempio - da un maggior adattamento ad un maggior disadattamento sociale. La scomparsa dei sintomi non è di per sé un argomento conclusivo. A parte che non di rado non vi sono sintomi, a volte i sintomi persistono ma perdono di significato. E allora, quale è il criterio di efficacia? Ho persino dei dubbi sull'uso di questa espressione e che la parola "efficacia" non sia essa stessa ideologicamente carica. Mi sembra che in una impostazione di questo tipo anche i concetti di sanità e di malattia - così presenti al medico, il quale conosce i parametri in base ai quali una persona può dirsi malata ed un paziente può dirsi guarito - non siano applicabili. Il punto di arrivo è ignoto. Forse l'unico criterio è l'adesione del cosiddetto paziente al cammino intrapreso. Tutto questo porta a dire, tra l'altro, che il confronto tra psicoterapie di vario genere e psicoanalisi sarebbe scorretto perché diversi sono gli scopi perseguiti (per esempio, il discorso che vado facendo non sarebbe applicabile a una psicoterapia comportamentista o sistemica). Cosa resta allora dell'approccio medico? Credo davvero ben poco. Manca un'idea normativa di salute e perciò manca l'idea stessa di guarigione. Da questo punto di vista, si potrebbe dire in definitiva che la psicoanalisi si avvicina a quella che una volta era chiamata "cura d'anime", o anche ad una iniziazione laica. È anche una sortà di divertimento e un infinito esercizio retorico, cui partecipano l'io e l'inconscio delle due parti in causa. Mi rendo conto che questo discorso può sembrare affetto da aristocraticismo, ma forse è proprio così (il che ovviamente non vuol dire che la psicoanalisi debba esser riservata solo a persone colte, o abbienti). Voglio dire che la psicoanalisi è un gioco sui generis, in cui è accentuato il carattere di gratuità, cioè di non finalizzazione, proprio del gioco. Ed è, da questo punto di vista, un lusso, di cui io - poiché ne ricavo da vivere- devo teorizzare la necessità in una società che si concede facilmente lussi superflui ma che è molto restia a concedere appunto lussi necessari. Vorrei aggiungere che Vineis ha ragione a sottolineare l'importanza delle metafore in psicoanalisi, che anche secondo me è la prassi più metaforica di qualsiasi altra (esclusa la poesia). I fatti, in un certo senso, non sono niente. Il considerarli metaforici li immette in un circuito di significati, di cui mai nessuno è il definitivo, ma che bastano a riempire la vita. In questa apertura indefinita di senso sta, io credo, la speranza ultima della psicoanalisi. < i = .. s;
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