16 VISTA DALLA LUNA ~ O<: ~ j anni c'era un'ansia del recupero, della riappropriazione: si riscopriva, o si doveva riscoprire ogni lato dell'umano, dalla masturbazione alle nostre "fantasie peggiori") di una sessualità come "gioco, divertimento puro, irrazionalità", si escludono necessariamente altre esperienze della sessualità. Insomma, se bisogna stare in guardia, come ci ricorda l'autore, dai "padri perfetti", occorre al contempo diffidare di amanti "perfetti" (fantasiosi o smaliziati, capaci di vivere armoniosamente tutti i molteplici aspetti della sessualità, nessuno escluso), insomma di utopie "perfette". Si potrebbe anzi osservare che un po' di incertezza o perfino di disagio in queste cose (per es. non sapere bene cosa è davvero "liberatorio" o positivo) è qualcosa di prezioso, da custodire amorevolmente (una "utopica" imperfezione). E poi, siamo sicuri che tutto debba diventare discorso pubblico, oggetto di civile discussione e pensosi confronti? Se pensiamo alla attuale invadenza dei media, mi sembra che in quel modo più che eliminare paure e tabù inconfessabili si violi qualsiasi residuo spazio dell' individuo (è vero che è importante che le "cose strane di cui ci si vergogna a parlare" diventino comunicabili, ma il punto è: in quali modi, in quali contesti?). Credo comunque che questo libro, anche nel suo rispecchiare fedelmente vizi e tic di certi periodi della nostra storia (oltre che nel suo porre invece interrogativi scomodi e impopolari) vada letto, insieme a pochi altri testi (romanzi, saggi) come frammento di un attendibile ritratto generazionale, onesto e non nobilitante. Può infatti darci fastidio ragionare in termini generazionali, collettivi, ma bene o male rappresentiamo una generazione connotata da alcuni elementi significativi che per la prima volta compaiono nella storia (società di massa, svuotamento della tradizione - le tradizioni disponibili sono illimitate, ma come allineate in un catalogo - assenza di eventi colletti vi traumatici - guerra -e di esperienze di forte privazione - miseria, fame - eccetera). Ma vorrei tornare alla passione di "salvare" il prossimo, anche al prezzo di una intollerabile esposizione al disagio psichico e alla sofferenza. Lombardo Radice osserva che un tempo credeva ci fosse in ogni individuo un "bene prezioso" (nascosto), una "fiamma vitale" (spesso oscurata, che occorreva resuscitare), ma poi ha capito che si trattava di un'illusione (che cioè alcuni pazienti portano solo morte). Il fatto è però che questa scoperta non sembra avere conseguenze debilitanti o disperanti su Lombardo Radice e sulla sua attività. Gli "ultimi" continuano ad appassionarlo non perché servono aqualche disegno della storia o perché sono la leva del cambiamento sociale. E allora chiediamoci: da cosa nasce questo pathos verso l'altro? Leggendo e rileggendo gli scritti di Lombardo Radice si avverte un nucleo di inquietudine "metafisica" (e non per questo poco concreta) che non sempre si riesce a controllare o esorcizzare. Forse ai bordi del campo di segale l'autore è impegnato soprattutto a "salvare" se stesso, a impedire a se stesso di cadere giù nel burrone. Una testimonianza Adriano Giannotti I Ho conosciuto Marco agli inizi degli anni Ottanta. Era venuto all'istituto per fare la sua specializzazione in Neuropsichiatria infantile. Egli si era già interessato prima di adolescenza dal punto di vista psicologico, ma come lui scrive, "aveva fame di Clinica". Sentiva che senza un impegno diretto sul campo la sua adolescenza ancora presente e "pura" in lui non avrebbe potuto trasformarsi in impegno "maturo". Ho seguito molto Marco in quei primi anni e mi aveva colpito quel suo modo così poco psichiatrico, così naturale, così adolescenziale che pensai sarebbe stato molto utile vederlo al lavoro con gli adolescenti. Egli sembrava concretizzare così naturalmente quella parte autoriflessiva del Sé adolescenziale che tanto mancava agli adolescenti affetti da gravi patologie e che molti colleghi avevano perso o rimosso nel duro lavoro della realtà adolescenziale. Marco sembrava fatto di propos_itoper un lavoro con una patologia così grave e perturbante che in molti casi si sarebbe potuta organizzare in patologia cronica. L'adolescenza malata è una sfida continua e spesso diventa l'ultima spiaggia per il futuro del paziente e per le capacità emotive del medico. Proposi al Prof. Bollea di affidargli il Reparto. lo dirigevo il Servizio di Psicoterapia ma Marco non mancava spesso di confrontarsi con me discutendo del Reparto, di casi, di supervisioni. Andavo sempre più convincendomi della bontà del mio suggerimento e quando il Prof. Bo1lealasciò l'insegnamento, Marco iniziò a lavorare direttamente con me. Numerosi lavo1i clinici testimoniano il nostro interesse comune. Solo quattro anni abbiamo potuto lavorare insieme. La morte, è il caso di dirlo, ce lo rapì proprio mentre prendevano corpo una serie di iniziative volte a dare una svolta al modello assistenziale per l'adolescenza che EDUCATORI E DISEDUCATORI Mettersi da parte, guardare gli altri che giocano, e proteggerli: in questa "concretissima utopia" (e immagine di possibile felicità) si trova la risposta a una angoscia non del tutto psicologizzabile o storicizzabile (ovvero: spostare il proprio io ai margini - senza però cancellarlo - e nello stesso tempo sentirsi, almeno provvisoriamente, onnipotenti). stavamo sperimentando nell'esperienza clinica istituzionale. La sua morte è rimasta ancora come qualcosa di indigerito. Personalmente l'elaborazione di questo lutto è molto tortuosa, sento spesso dentro di me che non posso lasciare Marco, morto, ma che qualcosa di lui deve continuare a vivere. Poco prima di morire egli mi diede da leggere il saggio sulla crisi della età di mezzo: era rimasto molto colpito dal fatto che la possibilità concreta dell'esperienza di morte poteva agire, come aveva agito in molte personalità creative, o come un blocco della creatività giovani le o come l'inizio di una nuova età creati va. Le sue riflessioni sulla morte in adolescenza presero spunto da questa lettura. Cosa succedeva in lui? Dopo molte resistenze aveva iniziato un'analisi didattica. Io penso che Marco si sia trovato di fronte al rischio di perdere la sua adolescenza, quel suo punto di vista del tutto particolare che lo faceva saper stare dalla parte giusta per il suo lavoro clinico, dalla parte di chi non aveva 1isorseper crescere pur avendone un grande bisogno, di chi era stato vittima di un potere più grande di lui, di chi non era riuscito a dare voce alle forze vitali. Credo che in questa area noi possiamo ritrovare anche il Marco "politico" che tanto ha saputo dare per capire la lotta fra generazioni, fra potere e risorse individuali: nella malattia della mente adolescente credo che lui ritrovasse molti spunti per capire i conflitti sociali. Io intendo ricordare e mantenere la presenza di Marco fra gli operatori dell'adolescenza e spero quanto prima di poter procedere all'istituzione di una Casa-Famiglia per adolescenti che dovrebbe ospitare anche la "Fondazione Marco Lombardo Radice" per mantenere costante, attraverso iniziative culturali e operative, l'interesse per questa esperienza dell'uomo, soprattutto per quello più sfortunato.
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